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20 Ottobre 2023 •   

Le cose da sopra si allargano

Tempo lettura: 9 minuti

Dopo aver ascoltato l'audio scorri a fine pagina per non perderti la traccia finale.

Portovenere non ha aree verdi dove far pisciare i cani.
Ci sono però le case color pastello, il porticciolo con le barchette ormeggiate, la grotta di Byron, dove le onde del mare sono cosi piene d’acqua che quando impennano le senti urlare e poi, c'è una statua in bronzo di Madre Natura seduta sugli scogli senza fare nulla, che se ne sta lì tutto il giorno da sempre e forse per sempre ad ammirare il mare.

Portovenere è la chiesa di San Pietro.
È perché è lì che ci ho visto Il suo simbolo, nella straordinarietà dell’incontro tra uomo e natura, arroccata sugli scogli a picco sul mare bella da togliere il fiato, non può essere altro che uno di quei motivi che fanno di un luogo la sua memoria e forse è per questo che George Byron andava a scriverci le sue poesie lì. Da quella finestra sull'acqua ti sembra di assistere ad un miracolo.

A Portovenere ci sono andata per scoprire se da quelle finestre lasciate aperte vista mare scorte tra una  manciata di fotografie su google, la vita da lì respirasse diversamente.

Lo faccio spesso quando sto stretta dove sto, mi faccio un giro per trovare luoghi larghi abbastanza per accogliere il chilo di emotività in più che ho da smaltire , e spesso sono posti da dove posso vederci l’acqua o dove posso guardare giù, in quel togliere e dare delle onde che calmano come miorilassanti , in quel salire che sembra tracciare la  giusta distanza dal mondo quando lo sento contaminarmi.

L’ho scoperto quando vivevo a Londra che le cose da sopra si allargano.
Pensavano si allontanassero e basta. Invece a me m’è sempre parso di vederle allargarsi, come quando vedevo le storie degli altri tutte insieme dal secondo piano dei bus rossi a due piani, o dalla terrazza panoramica dello Shard di Renzo Piano, dove ci ho posizionato la mia prima volta con la grandezza quando non riuscivo a tenere  tra le code degli occhi tutta quella vita talmente era larga, talmente era viva, talmente era interminabile.


La morsa sullo stomaco può toglierti cubi d’aria di sopravvivenza.
Ti lascia in vita ma con il fiato corto e quella primavera targata ’23  con la valigia nel baule, il materassino gonfiabile per Joy e la rustichella dell’ autogrill che anche che non c’hai fame la mangi lo stesso, mi sapeva di un bel viaggio, di voglia di spalancare, di vedere se era ancora vero che le cose dall’alto ti lasciano il permesso di avere una prima volta con qualcos’altro. 

Presi un appartamento a qualche scalinata più su sul livello del mare da dove ogni mattina apparecchiavo la tavola con una tovaglia a quadri bianca e blu, un laptop e una ciotola di kefir piena di cereali, come se quella ciotola apparentemente priva di significato fosse invece un punto di riferimento in cui ritrovare memoria se fossi andata in panico, il kefir, la ciotola e 40 grammi e nemmeno uno in più di cereali con la frutta. 

Perché è questo che succedere quando scegli di affacciarti sul bordo dell’ignoto, quando ci vuoi mettere almeno un piede oltre, vai in panico e allora ci si vuole guardare intorno per accertarsi di avere ancora con sé qualche filo familiare lasciato a penzolare da cui risalire.
Invece i guru dell’epoca moderna ci hanno abituati a distruggere tutto quello che fa conforto, che fa abitudine, a tagliare, ad avere paura, ad andare nel buio senza sostegno, come se per ogni punto e a capo di ogni nuovo inizio, non ci faccia abbastanza persona portarsi dietro qualche parte di noi.
Ma io non volevo dimenticarmi e nemmeno condannarmi se a picco sul vuoto fossi tornata indietro. Perché stavolta non dovevo compiacere o dimostrare di essere capace di saltare o di rinunciare, stavolta al massimo dovevo imparare ad integrare un nuovo capitolo della mia storia senza buttare all’aria tutto ma co-regolando ogni pezzo di vita che desiderava esistermi.

Per la prima volta senza pensarci su 2 volte  dissi “Ciao io vado”, 

Dove e fare cosa? 
Vado in alto, a scrivere.

Questa volta era quella volta.
Quella là.
La volta che scandisci a gran voce senza alcuno sfondo di incertezza, la verità che non hai mai voluto pronunciare.
Perché dirlo ad alta voce implica esserne diventato consapevole e stavolta solo per averlo ammesso nella materia ci si poteva credere di più, si cambiare idea, si poteva smantellare la credenza del “ tanto che lo faccio a fare”, ci si poteva opporre alla coerenza che non ammette cambiamenti di idea, ma accogliere senza esitare, l’implorazione di un grido che puntualmente viene a chiedere ascolto,  proprio là sullo stomaco, il megafono da cui la voce interiore urla ciò che ti vuole far recapitare quando non sei in grado di accomodarla con la stessa facilità con cui ti rendi disponibile per qualsiasi altra cosa.


Decifrare nel linguaggio del corpo quel sentire disturbante come un promemoria che invita a prenotarti un appuntamento con te stesso per vedere se sei ancora allineato, ho deciso essere il modo con cui mi guarisco, ho deciso che è così che la vita comunica con noi, che non ha a che fare con la casualità ma bensì porta sempre un nome e un cognome.

Rimanere in profonda compagnia di quei sentire, aiuta a non fare l’errore di generalizzare quando ti senti impantanato, per non  tirare conclusioni affrettate, e non far cadere la propria liberazione nella mediocrità dell’indovinare, ma imparando diversamente l’arte del sapere sintonizzarsi con la frequenza interiore.

Quella volta, la generalità di quello stato di separazione che sentivo tra il mio corpo e la mia anima, tra il visibile e l’intangibile, aveva a che fare con un bisogno specifico.
Scrivere.

Cosi, di fianco a quella ciotola di yogurt, ci ho apparecchiato lo strumento mi che avrebbe levato via quel fardello dallo stomaco senza ricorrere a nessun rimedio anestetizzante. Nessuna medicina, nessun antidepressivo, ma uno strumento creato proprio da colui che per conto del suo  “Stay angry stay foolish”, ha creduto di poter cambiare il mondo e lo ha cambiato per davvero.

Io quel laptop non me lo  ero portato dietro per guardare Netflix, che Netflix l’ho guardato si, che l’ultimo valzer di Jordan rimane indiscutibilmente una delle serie tv più affascinanti e pregne di insegnamenti di sempre, ma mica era per quello che avevo ricordato di metterlo in valigia, di dargli una riga nelle note delle cose necessarie da non dimenticare. Quel laptop valeva più del telepass, più degli adattatori, indispensabile come la cura per il crociato rotto di Joy e le  pastiglie per la sclerosi multipla per me.

Anni prima, avevo già avuto a che fare con i suoi predecessori.  Le pagine dei diari di scuola, quelle di mezzo, tra giugno e settembre, che tanto la scuola  era chiusa e potevo permettermi di riempirle di parole durante le lezioni di matematica che intanto mi spianavano la strada pagina dopo pagina verso il debito che mi sono portata fino in quinta superiore. 

C’era anche Tommy di fianco a me che faceva lo stesso col suo diario, ma a differenza mia lui utilizzava le prime pagine libere che gli capitavano per disegnarci su. Non aspettava di trovare lo spazio giusto. Io invece aspettavo sempre. Aspettavo di farmi scorrere sotto le dita i primi 6 mesi del calendario, prima di restituire al mio demone un luogo in cui esistere.

Sembrava più sicuro cosi.
Sembrava più sicuro trattenere, tenere dentro, sicuro come il destino di una barca legata al porto a cui si fa assaggiare la sua chiamata,
a cui non concedi il potere di assumere la ragione per cui è stata costruita.
Lasciarla libera di navigare nel mare.

Lo spazio intermedio tra 365 giorni della mia Smemoranda negli anni è diventato un intero quaderno, poi le note sul cellulare, poi le didascalie sotto le foto di Instagram e adesso, dagli ultimi anni, Pages, il word processor da cui mi allontano quando lo spazio che mi lascia mi sembra troppo o è troppo bianco, ma anche quello che mi ha lasciato il permesso di allungarmi liberamente verso bicchieri di vino e ciotole si kefir per tutte le volte che non ero ancora pronta, per tutte le volte che avevo bisogno di tempo, prima di trovare il coraggio di concedere a quella chiamata il potere sfogarsi.

James Hillman diceva che abbiamo una vocazione innata che, se ascoltata e coltivata, può portarci alla piena realizzazione di noi stessi. Nella sua opera Il codice dell’anima, abbraccia una teoria, secondo quale, la nostra anima, prima di giungere sulla terra, sceglie quale sarà il suo scopo nel mondo.

Per realizzarlo, le verrà affiancato un daimon, una sorta di angelo custode che avrà il compito di guidarla e indirizzarla verso quella che sarà la sua vocazione. 

Scelsi di dargli credito, di abbracciare una romantica teoria zuppa di coincidenze e di fede, decidendo che quella morsa sullo stomaco, aveva a che fare con quell’atto di fedeltà che dobbiamo a noi stessi, una connessione invisibile tra uomo e divino che parla attraverso segnali il codice dell’anima. 

E cosi, sono partita alla volta di un viaggio in solitaria, ma senza l’ingenuità che bastasse macinare chilometri lontano da tutto, chiudere borse e borsoni, caricare in macchina il cane, il computer, una tela e un pugno di pennelli con cui tirare fuori lacrime mai liberate, per portare alla luce ciò che avevo dentro da sempre, piuttosto mi sono portata altrove, con l’intenzione di avere un posto nella mia memoria in cui un giorno, dopo tanti anni, io potessi associarci quella volta là, di quando ci ho provato davvero a slegare la barchetta dal porto, infilando le mie fragili dita dentro quel nodo allo stomaco che tutto sommato tanto stretto non era.
Perchè ogni capitolo della nostra vita, è meritevole di un luogo sacro dentro cui accoglierlo, che il destino di certi luoghi è quello di posizionarci l’inizio, il durante o la fine o dei tuoi capitoli, come un pollicino moderno che al posto delle briciole di pane getta punti di riferimento per ricordarsi la strada del ritorno a casa, per ricordarsi la sua storia. Punti in cui andare a rievocare con nitidezza non tanto ciò che è accaduto ma come lo hai trattato.

E fu proprio in quella strana serenità senza televisione e cellulare, senza responsabilità e sensi di colpa, che capii quanto sia un atto di fede 
rintracciare i tuoi silenzi, 
stare nei tuoi tempi e disegnare i tuoi umori.
di quanto ci sia bisogno di assistere alla morte dell’ego per sapere cosa sei quando lasci l’anima libera di non legarsi a niente.
E scoprire che tu, solo mosso in funzione della gioia senza oggetto,

di quella che sta in quelle parentesi che apri sulla vita per ritirarti dentro 
per lavorarti sotto, hai bisogno di stare fuori dalle storie di tutti per conoscere cos’altro sei quando nessuno ti aspetta.

Invece ora nessuna smania di pertinenza e buone maniere.
Solo vita senza precauzioni.
Di quella che metti nel baule per portala altrove.
Per reperirla.
Per rianimarla.
E forse per certi aspetti per non tradirla.

Portovenere diventò la mia prima volta di molte prime volte. 
La prima volta un viaggio da sola, la prima volta di Joy al mare, la prima volta in cui facevo le valige senza scappare da qualcosa, ma quella volta dove è nato questo blog.
A Portovenere ho dato voce ad un mio bisogno innato. Non quello che ti scegli ma quello che vuole tu sia il suo portavoce, che non è figlio dell'ego, che non porta la presunzione di caricarsi il forte peso degli appellativi, quanto più quello che vuole tu diventa solamente espressione di ciò che sei. 


Socrate diceva "Conosci te stesso".
Una ricerca che suggerisce all'uomo di conoscersi, di operare quindi un cambiamento per pervenire al proprio sé migliore, edificando se stesso secondo il proprio desiderio.
Composto dalla preposizione de e dal termine sidus che significa, stella, desiderare significa, quindi, letteralmente, "mancanza di stelle" e quindi consumarsi in uno stato di sofferenza per la mancata presenza nella propria vita di un qualcosa che si vorrebbe ci fosse.
Allora conoscersi diventa una bella roba. Una prospettiva di di vita ben diversa dal cercare cose, piuttosto appassionarsi alla ricerca del sapere chi siamo dandoci la possibilità di divenire anzichè diventare.

Forse cosi pure noi un giorno, potremmo esordire come ha fatto il poeta George Byron, quando mirando all'immensità di quel mare, ci vide semplicemente il senso pieno della vita, il folle battere del polso.
Forse quell’eterno e inesauribile più che guardarlo lo stava riflettendo.
A volte siamo proprio noi il pezzo mancante di noi stessi.

Oltre le scalinate nascoste di un piccolissimo borgo che mi sembrava essere sul il tetto del mondo tanto era alto, tanto aveva le coordinate per geolocalizzarsi perfettamente con la frequenza del cuore, ho aperto quel computer e ho iniziato a scrivere. 
Lassù sembrava un luogo perfetto per guardarsi dentro. Stavolta quella linea lontana sembrava contenere anziché dividere.
Lassù ho visto un’anima aspettare se stessa ritornare.
Lassù ci ho visto un appuntamento con le cose tue.

A qualche scalinata più in alto l’anima la puoi vedere tutta per intero, a volte basta mettersi solo in punta di piedi, uscire con lo sguardo dallo spazio di sempre e provare a vedere se nell'oltre, cessa l'accanimento di cercare altro, ma l'urgenza di ritrovare qualcosa di noi che avevamo dimenticato di avere.
Ti auguro di andare sopra ad allagarti il cuore.
Fosse solo per accertarti se in mezzo a tanto rumore, riesci ancora a sentirlo battere.

Immensamente 
A.

Clicca sulla copertina del disco per ascoltare tutta la traccia in versione completa.

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4 comments on “Le cose da sopra si allargano”

  1. Sono così felice che tu abbia aperto il tuo blog per condividere la tua vita e le tue esperienze con il mondo. So quanto hai lavorato duramente per questo, e il coraggio che hai dimostrato è incredibile. Non vedo l'ora di vedere crescere il tuo blog e scoprire tutto ciò che hai da condividere. Ricorda che sono qui per sostenerti in ogni passo di questo incredibile viaggio. 💕

    1. Ciao anima bella,
      A volte abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci dica che quella penna scrive.
      Tu sei una di quelle e questo io, non lo dimenticherò mai.
      Immensamente.
      A.

  2. Con le tue parole mi hai fatto compagnia nel mio tragitto lavoro-casa: 30 minuti e ho fatto play due volte. Grazie Alex, per avermi accompagnata a casa - ho sentito i brividi (e non per il freddo)..mi hai toccato l’Anima e l’ho capito quando sono arrivate le lacrime.
    Mi hai ricordato tante cose, e che forse ho proprio bisogno di portarmi al mare, a qualche scalinata più in alto. Grazie. ♥️

    1. Ciao anima bella, le lacrime portano sempre con sé uno sfondo di verità che solo tu puoi conoscere.
      Ti auguro allora di portarti al mare, magari va a finire che quelle lacrime erano solo parti di te che volevano essere viste.
      Grazie per aver letto.
      Immensamente.
      A.

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