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Ho smantellato il contorno di tutte le mie credenze il giorno in cui ho intenzionalmente lasciato la presa, tolto la garanzia alle cose assolute e smesso di trattenere a me il sollievo per vedere cosa sarebbe rimasto al netto delle mie narrazioni una volta drenati gli eccessi delle proiezioni. Ho osservato senza agire, guardando il rilievo di ciò che rimane scartando il profilo che da sempre , ha reso la visione nell’insieme piena, come guardando un negativo fotografico con i toni di colore invertiti rispetto all’originale, dove si partecipa alla realtà rimuovendo il filtro dell’indubitabile. Avvertivo come se non ci fosse più alcuna garanzia di bagnarsi in sorgenti cristalline, e ne volevo avere la prova, volevo capire se arenarsi in quello stato torbido che offuscava la limpidezza dell’originale stato delle cose, fosse il solo modo per vivere, tenermi stretta alla presa di una narrazione facendo finta di non vedere, per non sentire il mio disagio. Approfittare del disordine generale del mondo per impregnarsi di ciascuno e ogni cosa , mi sembrava in ogni caso un atto dovuto, una chiamata a sporcarci le idee, cosi che nessuno avrebbe mai potuto giudicare senza essersi ingozzato di qualunque cosa, prima di verificarne la reale intolleranza, prima di comprendere di cosa abusare, senza che gli scatenasse allergie all’anima, per decidere eventualmente in piena coscienza di cosa fare a meno e come scegliere di curarsi.
Attraversare quel fiume per attraversare la vita, il solo modo per provare a risvegliarci era diventarlo. Come quando ci dicevano di mangiare una cosa prima di dire che non ci piaceva. Come avremmo mai potuto definire le nostre maniere se non avessimo assaggiato il sapore del mondo, se anche noi per il mondo non avessimo puzzato ogni tanto, se non fossimo stati un po’ scadenti, un po’marci un po’ insipidi, se prima, non fossimo stati anche noi un’unità di misura oggetto di statistica o come diceva Jodorowsky persone costantemente spaventate che cercano rifugio in un nirvana scadente per evitare di doversi confrontare con le mostruosità della vita e con la dimensione panica del quotidiano.
Non si poteva chiudere lo sguardo all’esterno, non si poteva evitare il passaggio di essere tutto, o quasi, almeno una volta, un po’ traditori, un po’ bugiardi un po’ narcisisti, un po’ opportunisti, e si anche un po’ effimeri, e come non farlo dal resto, davanti a un mondo che seduce come una femmina ingannandoci con il suo maschile singolare. Ci ha tentato e sedotto fino a farci perdere la testa con quel suo modo di nascondere ogni irregolarità cosi che diventassimo schiavi dell’impeccabile, di peccati omettendo peccatori, facendoci apparire tutto legittimato ad esistere e dando per buona la menzogna radiando dalla verità ogni tentativo di riconciliarsi al suo stato naturale, per finire in ultimo a creare il danno più irreversibile, non farci indagare su chi siamo, inducendoci a inseguire modelli che nemmeno conosciamo che come insegnamento vendono l’anima per un briciolo di identità.
Era un passo inevitabile per raggiungere l’altro lato della sponda, essere società diventando anche noi portatori di qualcosa che aveva il compito di contaminare gli altri per aiutarci tutti a capire, su quale livello dello strato epidermico avremmo incontrato il nostro Io più originale, se nel caos dell’approssimazione in questo vivere per processi imitativi, fatto di buona condotta per essere validati dal mondo, oppure banalmente per conto dell’arresa e quindi della scelta.
Avremmo potuto lasciare tutto cosi com’era, continuare ad imbrigliarci dentro i fili della matassa perdendo le coordinate della nostra estremità e annodarci fino al punto di soffocare per poi essere costretti a tagliare qualora la tentazione a compiacere più che consolatoria fosse diventata il cappio per la nostra prigione. Saremmo rimasti volentieri a cristallizzare “L’io sono” assieme alla moltitudine, se la proiezione di quello scenario cosi attraente, avesse poi prodotto un certo senso di orientamento, un punto di raccolta per l’interrogazione sorta a contrastare l’ovvietà, se ci fosse stato dello spazio di respiro per mettere domanda nelle cose che si erano date senza alcun dubbio per per buone, ma c’era troppo di tutto e troppo poco di quello che serviva per continuare a restare. Un elogio ai 7 vizi capitali, un abuso di potere uscito fuori dalle mani. Vita mia morte tua, e quella stana interpretazione dell’unione, che invece di raccoglierci nel tutto è uno, ha separato l’uno dal tutto, generando quel senso solitudine irrecuperabile come il battito d'ali di una farfalla che provoca un uragano dall'altra parte del mondo.
Troppe schiene girate, e troppo dolore per troppo poco amore. Come c’è arrivato l’Io a separare l’uomo dal suo Sè, l’ha nutrito di un sentimento spiccio rivenduto al doppio del suo valore reale , facendogli credere che la sua ricerca, sarebbe sempre giunta a ritrovarsi tra la mediocrità e l’eccesso, tanto che ad un certo punto è sembrato di essere stati selezionati più che all’evoluzione ad un protocollo sulla ricerca del costo più basso della coscienza. L’isteria generale sembrava aver preso il sopravvento sulla ragione, che quei pochi che sembravano voler partecipare a quell’esperimento con un’intenzione più umana, si sono arresi per sfinimento e per sfinimento, hanno tagliato tutto quel nirvana scadente che intorno a loro si era aggrovigliato chiudendosi in solitaria nelle camere, nelle case, al di là delle colline dentro la propria impotenza, mentre altri ancora, recidendo quel legame solo parzialmente nella speranza di vedere la realtà cosi come mamma l’ha fatta, senza quelle proiezioni illusorie attraverso cui si sono raccontati delle storie per venire a meno della dimensione panica del quotidiano. A quei livelli di rumore nessuno ti sente. Bisognava uscire dal caos per dividersi per unirsi a sé, e poi eventualmente tornare, non necessariamente per partecipare ma per saper coesistere. Ma perché farlo? Perché proteggerci da un possibile inganno sembrava un altro atto dovuto , cercarsi solo nella folla un eresia. Vivere il panico dell’uomo che abita il suo ignoto era un gesto assolutamente da compiere per ritrovare il sé perduto, non più tra la mediocrità e l’eccesso, non più vendendo l’anima per un briciolo di identità, non più nel dondolio di un esistenza non capita veramente, ma nel dolore più totale dell’assenza delle forme, lontani da quell’ accozzaglia di “io sono” devoti ad un appagamento personale e troppo poco a quella banale verità che incontrare fa paura come la morte, e non perché la morte di per sé sia paurosa, quanto più cambiare forma senza sapere quale sarà.
Bisognava essere fiume, puzzare di apatia e tradire se stessi per cessare di essere quello che si è stati, ed essere quello che non si è mai stati tanto per incominciare. Incontrarsi al di fuori dell’identificazione oltre il filtro dell’indubitabile per costruire un pensiero di sé da capo, un “Io sono” inedito e dedito alla propria conoscenza, che sperimenta il suo dentro nel dolore della sua impotenza attraversando tutta la sua debolezza per riunirsi a se stesso in una solitudine volontaria. Serviva allontanarsi per allentare la matassa, cosi che piano piano la coscienza dell’uno resosi cavia di un esperimento più sacro, potesse mostrare agli altri la via per creare insieme un nuovo mondo in cui l’aria è rarefatta e il respiro diventa limpido, solo per conto di uno scambio originale che né copia e né modifica ma al massimo cura solo quello che è.
Ritrovare le coordinate della sua estremità arrendendosi alla non-forma affinché l’immagine originale salisse a poco a poco come una febbre verso l’iperpiressia, come a volerne sottolineare l’ imprescindibile cura se non si vuole morire, se si vuole incontrare chi si è e quindi il significato della vita.
Il mondo ci era necessario per decidere eventualmente in piena coscienza di cosa fare a meno. Uscire per dividersi per unirsi a sé, e quindi alla vita per poi eventualmente tornare, ma non per esaltare il lavoro che si è fatto per salvarsi, quanto più per condividerlo, per mostrare ad altri che di Di originale c’era ancora rimasto il cuore e che il mondo lo avremmo salvato solo se noi per il mondo saremmo stati amore.
A quel punto non occorrerà più osservare senza agire, alcun dubbio verrà sollevato nel panico di perdersi, il nuovo fiume si sarà fatto cristallino e se tra la folla le estremità delle sue coordinate gli dovessero mai sfuggire dal cuore, gli basterà specchiarcisi dentro, trovando nell’altro quel pezzo di sé che finalmente gli somiglia.
Salveremo il mondo solo per noi per il mondo saremo amore.
Il nuovo mondo è solo nelle nostre mani.
Immensamente A.
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