La strana abitudine di mettere tutte le cose belle negli angoli degli occhi
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Andiamo avanti era un’esternazione che mi sapeva di incontentabile, formata dall’insieme di più parole che da sole non ci sanno stare e che messe insieme ne fanno una unica. Li ho sentiti tante volte i grandi pronunciare le parole uniche , andiamoavanti, finchèsiamoqua, mi sapeva di voglia di far veloce non aprire le risposte ai come stai, qualcosa che aveva a che fare con la mancanza di buone maniere, e poi per di più quelle risposte sbrigative, mi creava disagio sentirle pronunciare, mi sembrava che quelli che con le parole uniche mendicassero un incoraggiamento al domani, il che, rendeva fragile l’immagine che mi stavo facendo dell’esistenza e del vivere. Io una vita cosi non la volevo mi dicevo. Non avrei mai voluto arrivare ad accontentarmi di descriverla. Avrei voluto piuttosto fermarla, scandirla, ma mai ridurla dentro esternazioni incontentabili , ovvero quelle che portano con sé l’avidità di chi crede che parlarsi di vita non sia un fatto importante che valga la pena poi allargare. Ciò che mi intristiva di più però, erano le espressioni degli occhi di quelle risposte. Io dal mio metro di altezza, tra le ginocchia di quelle persone percepivo nei loro sguardi una difficoltà a procedere, un travaglio emotivo che non prometteva buone cose, e dal basso di quella taglia guardavo in alto il mondo adulto che mi sembrava sempre un mondo dove la felicità si vedeva solo con la coda degli occhi.
Per tutti gli anni a seguire ad ogni centimetro di altezza in più verso l’alto, raggiungevo il livello di quella dimensione drammatica che dai piani più bassi si faceva fatica a comprendere, perché là sotto noi avevamo solo da fare cose spensierate come, pettinare i capelli alle Barbie, scontrare le macchinine contro le porte, dividersi le goleador all’oratorio e andare a ballare il sabato sera. L’unica forma d’ansia che si poteva provare era sperare che con la testa sotto il banco non ti avrebbero interrogato, che i tuoi non sentissero la mandata di chiavi nella porta oltre il coprifuoco e che la persona che ti piaceva avrebbe ricambiato lo squillo sul cellulare.
Per noi alti un metro e mezzo bicchiere di latte, i drammi li potevi districare facilmente facendoti una partita Pac-man , o mettendoti le collanine elasticizzate intorno al collo, magari avresti pianto un po’ per esserti fidato del per sempre, per esserti guardato 128 puntate di Dawson's Creek e scoprire che Joey e Dawson alla fine insieme non ci sarebbero più stati e per aver capito che il cuore ha due porte da cui da una si può uscire. Ma tutto sommato, nessuna crepa che non fosse semplice da chiudere mettendoti con un po’ di smalto sui piedi o tirando un pallone dentro entro una rete ad una partita di calcetto il giovedì sera. Invece lassù a quell’altezza, scarseggiava il fissante per i buchi da coprire. Non districavano più i fili aggrovigliati allungandoli dentro un giro in motorino o radunati ad un tavolino di un bar bevendo cocktail senza ghiaccio, niente attività ludiche per modificare la realtà, niente uscita deumidificante dopo il lavoro per spurgare l’eccesso di umidità dalla mente. Loro condensavano dentro e avevano questa strana abitudine, di mettere tutte le cose belle negli angoli degli occhi. Lo so che che è lì che andavano a finire le cose per cui valga la pena essere felici, perché è in quell’angolazione che molti di noi hanno abitato, ovvero di fianco, vicino alle code di quegli sguardi che dritti non ci guardavano mai.
Siamo stati figli dei lati, dell’aspetta ora non ho tempo, del dimmi senza essere ascoltati e quindi figli, di quel senso di vertigine che ti danno le cose ti fanno sentire protetto a fatica.
Ma c’era qualcosa di molto più ingombrante capace di prendersi tutto, di succhiare campo dalle costruzioni con i lego, dalle recite scolastiche, dal come è andata a scuola e persino anche alla loro individuale serenità. Era la taglia dell’inquietudine di cui erano fatte le preoccupazioni dei piani più alti, il peso delle promesse che non si riuscivano a mantenere, l’imprevedibile di ciò che non si aspettavano arrivasse e le responsabilità eccessivamente dense da non diluirsi con nient’altro tanto da buttare ogni cosa nei margini.
Non c’era tempo per guardarsi. Non era concesso fermarsi per riparare da capo con calma, per tirare su le cose che cadevano per terra, per rimanere un po’ di più tra cose leggere. Avevano un solo un pensiero fisso, salvarsi e salvare e una serie di non ho fame mangia tu che non ti hanno mai dato l’impressione che ci fosse qualcosa fuori posto, forse la presenza si ,quella si che era altrove, magari a costruire in quella mente che assentava gli occhi, nuovi modi per costruire pareti oltre le quali non provare più smarrimento. E poi siamo arrivati noi lassù a scambiarci con gli adulti l’aria , ad avere la vita vera ad altezza occhi, quell’altezza dove ad un certo punto ti sei ritrovato anche tu a voler mandare tutto all’aria, a smettere di assicurarti che tutto ciò che hai faticosamente costruito valesse tutta quella pena. Ci siamo ritrovati a volerci ribellare ad un destino già tracciato, smetterla di avere scopi da raggiungere, traumi da sbloccare, privilegi da non deludere. Avremmo ambito volentieri ad una cosa semplice, tipo una tregua, fatta di quel ritmo che conducono le esistenze biologiche figlie dell’inerzia, che rimangono sospese tra ciò che non accade e non accadrà, che sanno di che sapore è fatto il tempo quando non devi guadagnartelo, quando adulto non ci diventa mai. Ma ai grandi non è permesso di diminuire. A noi è concesso un bicchiere di vino, un pianto sul cesso, un urlo liberatorio chiuso tra i finistrini di un auto e poi, via di nuovo a ricominciare, via di nuovo a credere, via di nuovo a ricordarti perché lo fai.
L’ho capito ad un metro e un pezzo di vita, che i grandi, in quell’incapacità di allargare le parole cercavano solo di contenere gli sprechi del tempo. I divulgatori di parole sbrigative, le distrazioni non se le potevano permettere. Ai piani alti sembrerebbe che non siano stati pensati tentennamenti verso la fragilità, ma solo sensazioni di vertigini, ovvero ,quel sentimento di incertezza nell'essere in grado di saper attraversare ogni cambiamento, movimento e impermanenza con il dubbio di riuscire a contenere sempre la propria vita dentro gli angoli , come a sapere che avrebbero potuto non avere sempre la garanzia di guardarla dritta in faccia, purchè nell'impresa fossero riusciti a guardarla almeno con la coda dello sguardo, l'angolazione massima oltre la quale accettare di vedere il senso di ogni cosa. Avrebbero conosciuto molte volte l’ombra che incalza sulle aspettative finite male, avrebbero messo in discussione la capacità di riuscita, la competenza dell' interpretazione di ciò che non è chiaro, e nell'incertezza, sarebbero arrivati persino a dubitare di se stessi, tutto questo senza chiedere una sola ora d'aria, ma continuando ad abbinare i vestiti prima di uscire di casa , prima affrontare l'ordinarietà degli avvenimenti mostrandosi al mondo sempre interi.
Si sarebbero isolati si, ma dentro, avrebbero chiesto al loro corpo di contenere, sarebbero persino arrivati a renderlo più elastico purchè raccogliesse di loro ogni pezzo, e non per un eccesso di autolesionismo, ma perchè quella era la memoria della loro storia, ciò che ricordarla nei momenti bui, avrebbe ridato alla fede resilienza e ai sentimenti dignità.
Io, di questa roba dei grandi non avevo capito niente, pensavo fossero tutte persone infelici e esitanti nel chiedere alla vita altro, persone che si accontentavano di usare parole incontentabili, cioè persone rassegnate nel credere che nella vita si potesse arrotondare per eccesso. Invece è solo quando mi sono ritrovata a vivere, cioè a partecipare ai momenti in cui le cose non sono andate come me le aspettavo, quando ho dovuto accettare di stemperare l'esigenza di costruire con pennarelli indelebili, che ho capito che andiamoavanti e finchèsiamoqua, sono esternazioni ben lontane da digradare nobiltà, lontane dall'incapacità di non aver saputo far durare, bensì sono le parole uniche più incoraggianti che io abbia mai sentito, sono solo perchè indietro non ci guardano mai, ma perchè seppur abbiano alle spalle una storia messa in pericolo dalla vertigine di cadere, sono la dimostrazione che l'epilogo finale rimane ancora discutibile fintanto che all'appello della vita pronunciano ancora il proprio nome.
Io una vita cosi non è vero che non la voglio, io la voglio eccome la vita di quelle creature straordinarie, perchè onestamente non credo di aver mai visto niente di più sorprendentemente capace di insegnare, niente di ogni cosa che ho sottolineato nei libri è stata sufficientemente in grado di riuscire a farmi trovare la forza di Andareavanti quando avrei voluto lasciar perdere tutto. Invece, è solo facendo come loro, guardando nella coda degli occhi il motivo per cui lo stavo facendo, che ho accettato di vederlo ogni tanto di traverso, sapendo che, se avessi coltivato resilienza nella fede e dignità per tutti i miei sentimenti, un giorno il senso di ogni cosa si sarebbere spostato da quegli angoli dritto in mezzo agli occhi e chissà, se a quel punto, il sole, si sarebbe sentito ancora l'unico al centro dell'universo.
Ai grandi, ai vostri angoli degli occhi.
Immensamente A.
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