Dopo aver ascoltato l'audio scorri a fine pagina per non perderti la traccia finale.
Ero già adulta quando un mio messaggio di whatsapp tra me e un ragazzo finì sui cellulari di alcune persone. Fu la prima volta che mi sentii derubata della mia intimità cosi platealmente. Perché chi più chi meno, siamo stati oggetto di chiacchiera almeno una volta nella vita, una procedura che sembra essere quasi inevitabile per incominciare a farti un’idea di che cosa può offrire il mondo, ma diverso è quando quel mondo lo fa con l’intenzione di ledere per scelta omettendo dalla coscienza ogni qualsivoglia possibile conseguenza.
Solo ora che la memoria riaffiora quell'episodio, penso a cosa sarebbe potuto accadere se fossi stata poco poco più fragile, poco più accomodante, se non avessi acquisito per tempo quell’integrità alla maieutica socratica che ti permette di rimanere sempre dalla tua parte della tua verità qualsiasi cosa accada, perchè da quando la sofferenza mi ha consegnato una patologia autoimmune, non mento se ti dico che ho dovuto imparare a non somatizzare più il dispiacere , come se rafforzare l’epidermide dell'anima fosse l'unico modo per arrestare la propagazione di qualsiasi altra sofferenza.
Rimasi però chiusa in casa per diverse settimane sotterrata dall’umiliazione e dal giudizio, dal poco tatto, dall’assoluta negligenza di evitare lo scambio e dal parla parla di paese ai tavolini dei bar, ma poi, grazie a quella straordinaria fortuna di aver da poco raggiunto dopo anni di lavoro e terapia il mio centro, riuscii ad alzare la testa e guardami allo specchio senza abbassare lo sguardo.
Tenermi aggrappata ai mie occhi, aveva significato farmi bastare la mia verità per salvarmi da una trama incorretta, da quel telefono senza fili dove l’ultima parola non corrisponde alla prima, da quel tunnel di chi cerca spiegazioni per essere dentro qualcosa che fa notizia, da quel sentirsi legittimati a chiedere spiegazioni quando la tua vita non è di proprietà di nessuno, specie se a quel nessuno non induci alcun male. Quel gesto per quanto spregevole rimase comunque contenuto, vivo solo nel sapere che qualcun altro aveva saputo, ma restò fermo lì tra i quartieri di un paese senza che accedesse a quella rete virale che sai quando inizia ma non quando finisce.
Se lo scenario però fosse stato diverso, se avessi incontrato meno coscienza, se fossi stata più vulnerabile, se anziché un messaggio di cui il peso era come dire, "tollerabile", ci fosse stata un’intimità più esposta, sarebbe successo quello che abbiamo visto già accadere?
Perché di storie di cui il finale non è lieto ne abbiamo purtroppo viste già parecchie e quando la tua vita diventa oggetto di dominio pubblico accade che quelli che prima erano i confini che restituivano alla tua riservatezza custodia, vengono distrutti, dando il via libera a quella mediocrità un po’ narcisista, un po’ vanitosa, un po’ squallida e un po’ meschina, di entrare con un carico da 90 dentro la maglia più stretta dell’ anima, disintegrando ogni strato della tua persona, fino a raggiungere lo spazio dove abita la dignità, luogo dove la morale e l’etica devono rimanere un’eredità di valori intoccabili.
Ed il punto a quel punto è un altro e sembra riguardare solo te.
Quanta forza hai, di sostenere un possibile aumento del volume dell'oggetto che di te è stato preso se proliferasse in quell’effetto domino irreversibile chiamato internet, chiamato coalizione, chiamato omertà? Perché che non si conosca più il confine oltre il quale non si deve andare è chiaro a tutti, ma allora c’è da chiedersi, una volta che il miserabile varca la soglia dell’intoccabile, come si fa ad uscire feriti ma indenni dall’immagine di sé spolpata da quel degrado empatico incapace di avvicinarsi con pudore al patrimonio morale di cui la funzione è proteggere la tua umanità?.
Che fare quindi? Provare a smacchiare con la difesa ogni traccia di quell’immagine dalle menti o lasciare che il ricordo di quello sfregio morale si ossidi col tempo? Denunciare basta? Ci sono punizioni che tutelano? Quali sono le alternative per evitare che una persona diventata vittima di disumanizzazione si sottragga al suo futuro?
Caro Andrea, sono andata a vedere il tuo film, il ragazzo dai pantaloni rosa, film che tanti di noi hanno visto “grazie” al libro che ha scritto la tua mamma, sempre se grazie possa essere la parola più appropriata da utilizzare per mostrare riconoscenza verso l’impresa di trasformare un dolore cosi grande in una missione di recupero sociale.
Le mie sono solo alcune delle domande che mi perseguitano rispetto alla piega che questo mondo ha preso, perché se da una parte riesco a vedere l’estremità di un filo ancora recuperabile, dall’altra non riuscire a vedere il suo lato opposto mi destabilizza. Sapevo che andando a vedere questo film sarei stata male, perché è cosi che ci si doveva sentire, seppur l’intento attraverso questa pellicola era quello di celebrare la tua vita più che la morte, comprenderai che si fa una certa fatica a guardare quell’oltre come solo gli occhi di un padre e di una madre possono fare per sopravvivere ad un dolore cosi grande. Perché io sono solo una persona, un adulta e sono figlia e potrei all’età di 35 anni essere anche madre, ma tolte le forme ed i ruoli rimango solo un essere umano, e da essere umano, davanti a quel finale cosi pregno di dolore non ho potuto fare altro che piangere ed unirmi a quei sospiri muti di tutte quelle persone sedute vicino a me di cui era evidente si stesse espirando il fallimento sociale.
Dopo il film, sono rimasta seduta per dare un po’ di spazio a quel dolore, per far si che non se andasse con l’accensione delle luci in sala , cosi che tu e tutti quelli che come come te hanno messo fine alla loro vita per quella persecuzione offensiva diventata mediatica, rimaneste a farci trattenere per una domanda in più, senza correre subito alle nostre vite come se queste storie ci appartenessero solo fin dove, il clamore di una storia vera, diventa una qualunque pellicola da consumare in un pomeriggio come un altro e non invece, il privilegio di avere un occasione per pensare a cosa, in qualità di collettivo, si debba rivedere fin tanto che gesti cosi estremi non vengano compiuti.
La verità, è che il mio quesito cosi come sicuramente quello di molti, era pronto per l’analisi da molto tempo prima, forse da quando quel prima ha iniziato ad essere nelle nostre vite un tema fin troppo ricorrente per essere un eccezione, con la differenza che davanti a quel finale appena fruito apparentemente lontano ma cosi maledettamente vicino, quel quesito emerse togliendosi per conto suo il punto di domanda alla fine dell’interrogatorio, come a voler respingere il permesso alla soggettività di ricamare alibi per discolparsi, o meglio di percepirsi estranei solo perché non direttamente coinvolti.
“Cosa - abbiamo - fatto.” non è quindi più una domanda ma diventa cosi un’affermazione, un occasione per tutti di diventare parte di un dato oggettivo, cioè che la mancanza di empatia propagata da molto lontano nelle sviste più sottili di ognuno di noi, ha indotto altri a sentirsi legittimati a non usarla per poi divenire causa di finali come il tuo.
Cosa abbiamo fatto diventa cosi una riflessione: Non ci si può togliere la vita per colpa della disumanità.
E allora se un quesito si trasforma in un dato oggettivo, cambia il peso della responsabilità, portandoci tutti e nessuno escluso, a percepirci fondamentali per tessere nuovi i fili di contenimento affinché si stringa sempre di più la maglia di quella rete sociale da cui sono in molti a scappar via, capace al contraro se fitta, di poter raccogliere e sollevare da cadute irreversibili, poiché gesti crudeli e parole spietate se non fermate in tempo, ti raggiungono sempre e ti raggiungono ovunque, abusando di quel patrimonio morale in quel modo cosi inarrestabile capace di congelare rapidamente ogni qualsiasi via di fuga.
Perchè si, l’intenzione di ledere per scelta è già di per sè un atto ignobile da gestire, ma quando si decide di infilare quell'intenzione dentro una cassa acustica, quello equivale a prendere l'anima di una persona e buttarla dentro un tritacarne e accade che chi ha fatto cosa, diventa quasi un problema secondario, poiché ciò che da lì in poi ti perseguiterà davvero, sarà la sensazione che tutti gli occhi che incontrerai, saranno occhi che sanno. A quel punto, come si può evitare che una trasgressione morale indotta non diventi un autocondanna, a spiegare in modo risolutivo ad una persona vittima di un gesto cosi inesorabile, che non c’è niente di cui sentirsi colpevoli fintanto che la libertà propria di essere o fare se non induce dolore altrui, porta con sé solo la realizzazione di chi si è?
Quella sera, sono stata vittima di un'umiliazione mai vissuta prima. La conversazione di quel messaggio fu tagliata al fine ti fare uno screenshot che potesse fraintendere il suo vero significato, un bivio abissale dal suo vero intento, impossibile da fraintendere dentro un discorso tra le parti di cui il tema era un altro.
Eppure ancora oggi mi chiedo perché mai lo abbia fatto, perché scegliere di cucire intorno a quello scambio una storia diversa, anche se il privilegio di potermi fare ancora questa domanda, mi ha portato ad accettare di non avere risposta, nonostante davanti allo scenario che si presentò successivamente l’epilogo convogliò nel farmi dare da molti della poco di buono. Precisamente della puttana. È solo per pochi attimi di fortuna che riuscii a non farmi rubare la dignità. Perché come dici tu Andrea,
" Le parole sono come dei vasi di fiori che cadono dai balconi. Se sei fortunato li schivi e vai avanti sulla tua strada, ma se invece sei un po’ più lento, ti centrano in pieno e ti uccidono”
Oggi purtroppo di storie dove i vasi hanno centrato in pieno ne abbiamo fin troppe, vasi pieni di pietre sganciate nel sempre e nell’ovunque per una discriminazione sessuale, un abuso, la violazione del proprio corpo durante la propria intimità, in quel modo dove porre fine alla vita è sembrata l’unica uscita di emergenza da quella carneficina.
Mi chiedo, come si deve sentire un essere umano per compiere un gesto cosi estremo, per decidere di andare nel per sempre piuttosto che rimanere. Provo perchè devo ad immedesimarmi in quel sentire per provare a capire come mai non ci sia stata alcuna avvisaglia da parte del corpo di fermare, di dire aspetta, lanciare un gemito di salvezza che facesse indietreggiare e poi mi fermo e percepisco un senso di smarrimento, quel senso di vuoto che appartiene a chi perde speranza nell’amore il quale probabilmente toglie il senso alla vita.
Caro Andrea, non so se riusciremo mai a debellare il male perché la verità è che il male è radicato come una lisca che si infila nella gola che anche se ci mangi su non se ne va, si nasconde e si traveste e non vede l’ora di farci bu per renderci vulnerabili e rubarci appena può l’identità. Non lo so se basterà sensibilizzare il mondo ad immedesimarsi con l’altro per nobilitare di nuovo l’empatia , se il male riuscirà ad inibirci senza farci smettere di credere nelle cose possibili, certo è che, solo per conto di quella speranza a voi sottratta se stiamo cercando di costruire quei fili di contenimento, affinché la solidarietà, l’unione e l’umanità siano facilmente reperibili per i più fragili. Magari rimarremo sempre troppo piccoli per il conosci te stesso di Socrate, ma quel te stesso oggi, lo stiamo rendendo più coraggioso di parlare, denunciare e chiedere aiuto laddove la miseria emotiva riesce ancora a penetrare l'epidermide dell'anima.
Se le parole sono capaci di distruggere , la tua stessa mamma dice che con le parole ci possiamo ancora costruire e lo fa con quella dignità dove la tua perdita per essere integrata probabilmente l’ha dovuta tradurre in sacrificio, cosi come hanno fatto tutti quei genitori che oggi hanno perso un figlio per le medesime ragioni, dove la vostra assenza forse, per pesare meno, hanno iniziato a vederla come atto d’amore per chi rimane, quasi come a convincersi che scegliere di sacrificare la vostra vita per salvare quella di un altro, è l’unico modo per sopravvivere ad un dolore cosi grande, come se nel tuo cognome fosse riposta la fiducia di spezzare la catena dell'immoralità.
E allora certo Andrea che ti viene da crollare in un pianto di desolazione, perché se fosse vero che ognuno di noi scende sulla terra per un motivo preciso, capirai che credere che questo fosse il vostro, può solo che portarci tutti a fare un lungo silenzio.
Mi chiedo se l'inevitabile non fosse partito proprio da noi, da quella volta che non abbiamo raccolto la carta da terra, da non aver fatto sedere chi ne aveva più bisogno, non aver sparecchiato il nostro piatto facendo intendere che il dovere di toglierlo non fosse il tuo, non aver chiesto come stai senza parlare di te, non aver interrotto quel il chiacchiericcio sulla vita di un altro quando quell’altro non era presente, non aver chiesto scusa ho sbagliato, aspetta che ti aiuto, prego dopo di lei, cosi da credere che questi gesti come altri apparentemente banali, non fossero in realtà cosi contaminanti per poter essere assorbiti da chi di contro poi si è nutrito forse di troppa indifferenza e superficialità, dove quelle sviste hanno portato a sentirsi esenti da qualsiasi forma di cura e responsabilità.
A noi, a quelli che rimangono, noi persone, noi genitori, noi figli, noi amici, noi scuola, noi umanità, spetta il compito a questo punto di ricordare il significato della parola Amore, inserendola come materia scolastica, attività ludica, oggetto di una conversazione a cena, affinché sia la sola cosa di cui ci su nutra più spesso, affinché i cuori di tutti possano essere di nuovo imbevuti di speranza e che nessun altro mai possa perdere per la sua assenza, il dono della vita.
Che il prossimo sospiro collettivo espiri vittoria.
A,
Tiziana Cantone 31 anni, che per cessare di convivere con la vergogna e lo strazio di vedersi costantemente derisa e offesa per un episodio che da privato è diventato pubblico, morirà suicida nella sua casa impiccandosi con un foulard.
Carolina Picchio, 14 anni, dopo che un gruppo di bulli la molesta di cui il filmato venne condiviso in rete, si toglie la vita lanciandosi dalla finestra.
Leonardo studente vittima di scherzi e prese in giro sul suo presunto orientamento sessuale si toglie la vita sparandosi.
Michele, per una camminata non del tutto regolare a causa della somministrazione di un farmaco scaduto viene chiamato e si toglie la vita lanciandosi da un ponte.
Gabriele 13 anni e un taglio alle vene per cancellare gli insulti omofobi.
Andrea Spezzacatena, morto suicida, dopo aver scoperto una pagina facebook piena di insulti a suo nome per il suo atteggiamento considerato una prerogativa delle femmine.
A tutte quelle anime volate in cielo per disumanità.
Ovunque voi siate, che oggi possiate camminare nella luce che nel vostro cuore è stata spenta.
Cantate fino a quando viene sera, da qui all’eternità.
Immensamente A.
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Dopo aver ascoltato l'audio scorri a fine pagina per non perderti la traccia finale. Non c’è malessere più logorante dell’immobilità quando la vivi da cosciente. Quando ti ha irrigidito tutto tranne che la consapevolezza. Perché quando ti senti soffrire significa che qualcosa prima di te sta percependo quel dolore. Che c’è qualcosa prima di te […]
Dopo aver ascoltato l'audio scorri a fine pagina per non perderti la traccia finale. Mia nonna mi chiamava Alessandrù, prima di incalzare tutta lista dei nomi dei nipoti. Luca, giulia, Sonia, Noemi, massi.. Nonna sono Ale. Ah Alessandrù amore come stai? Con nonna ci sentivamo alle 14.00 del pomeriggio quando andava via la badante, cosi […]