Nel 2018 il mio sistema immunitario va in tilt. Neurite ottica, più precisamente sclerosi multipla. La mielina, ovvero la sostanza che costituisce la guaina midollare delle fibre nervose e che ha funzione, oltre che protettiva, isolante nei riguardi della conduzione dello stimolo nervoso, viene danneggiata intorno al mio nervo ottico. Prima l’occhio destro, poi il sinistro. Sintomi: offuscamento improvviso, riduzione della vista periferica, macchia cieca, alterazioni della visione a colori.
Nonostante siano già passati 8 anni ricordo perfettamente quel pomeriggio in bagno prima della diagnosi. Mi guardavo allo specchio e con le mani appoggiate al lavandino, spingevo le braccia in avanti per avvicinarmi a guardare meglio quell’occhio che di funzionare non ne voleva sapere. Non conoscevo ancora che nome avesse ciò che stavo osservandomi in quel bagno, eppure senza che nemmeno ne fossi cosi consapevole, avvertii un limite oltrepassato, un pericolo che aveva appena varcato una fase cronica, il grido di aiuto di qualcosa che stava chiedendo di essere ascoltato.
Una settimana a seguire mi sdraiarono su un fianco in un lettino di ospedale nel reparto di neurologia e mi prelevarono con un a siringa tra la L3 E e L4 il liquido midollare. La sensazione di un ago che ti penetra nel midollo fatico ancora ad oggi a spiegarla, ma sa di roba seria ed estremamente delicata che il petto ti si ritrae, lo stomaco ti si appallottola nella gola e mentre ti invitano a rimanere immobile per non compromettere con l'ago il fascio di nervi che lo ricopre, senti la punta bucarti l’anima, che ti rendi conto, per la prima volta, di un “dentro” che non avevi mai tenuto in considerazione.
I centilitri di anima aspirata da quel midollo in questi anni hanno rappresentato una possibilità di guarigione o almeno di evoluzione, sicuramente almeno per me di ricerca. Ho letto e studiato molto sul tema, non per evitare quanto consegnatomi dalla natura ma per capire cosa farci, un atteggiamento che non si è mai fermato all’essere una mera statistica, sto a quanto dato punto - sono uno dei tanti dati che si organizzano e disciplinano dentro una raccolta di informazioni basate su ricerche collettive-, e questo, non di certo con scortesia verso la medicina, quanto più per allargare il mandala trovando altri codici di lettura a quella diagnosi, per esempio, come dice Hillman i codici dell’anima.
Quando ti ammali gli scenari delle conseguenze sono due. Diventi quel male, comprendi quel male. Uno si perde in quanto dato, l’altro si cerca in quanto dato. Io, non ho mai avuto la presunzione di poter guarire, ma avrei perso l’occasione di poter conoscere quel “dentro”, se avessi lasciato ad una patologia il compito di definirmi e quindi tanto valeva allora conoscerla quella malattia, non tanto nel suo stato ultimo ma retroattivamente.
Da quel pomeriggio la mia vita è cambiata, non perché mi ammalai, non perché il mio encefalo e il mio midollo presentavano innumerevoli di lesioni e nemmeno perché la malattia ti fa diventare una persona migliore che impara ad apprezzare la vita; è retorica, autocommiserazione e a me quelle robe lì non mi sono mai piaciute e mai mi piaceranno. Mi ha cambiata perché la malattia arriva per dirti qualcosa e semmai è cosi che ti cambia: sono malata ok ma perché?
Non ho una risposta certa, ma ho molte domande che si integrano in qualcosa che di ragionevole può essere osservato: perché qualcuno si ammala e qualcuno no, cosa è accaduto a questi qualcuno per generare risposte differenti e se il corpo si ammala può anche guarire? E poi cosa si ammala? Il corpo, l’anima la personalità? Esiste un io che viaggia indipendentemente da ciò che ti accade?
Dopo le neuriti ottiche, io la vista l’ho sempre ripresa e questa è assolutamente una fortuna. Ma c’è un però che mi accompagna lasciando al dubbio il beneficio di esistere; se avessi scelto di perdermi nella malattia anziché trovarmi, se mi fossi trattata e parlata come una malata anzichè tracciarle un confine oltre il quale non farla andare - tu sei dentro di me ma non sei me-, sarei comunque riuscita a tenermi lontana dalla fase degenerativa? Questo non lo saprò mai, ma credere di poter guarire anche se malati, predispone almeno la mente e il corpo un un atteggiamento di disidentificazione che in qualche modo ti porta a smettere di dare benzina sul fuoco.
Il corpo non sa distinguere l’illusione dalla realtà, possiamo quindi fargli credere quello che vogliamo con il potere della mente. Basti pensare al miglioramento percepito dal paziente che assume una sostanza inerte convinto che sia una cura vera. Lui pensa che sia la cura in realtà non lo è, eppure, seppur non ai fini (sempre) di una reale guarigione, i suoi sintomi migliorano con l’effetto placebo ,quindi c’è margine per accogliere qualcosa di indistintamente coinvolto nella cura, in un luogo che può dare oltre le leggi dello spazio e del tempo. E poi ce lo dice l’epigenetica, che non sono i geni che creano la malattia ma l’ambiente che invia segnali al gene per crearla. Per cui ha senso pensare anche che la nostra biografia e biologia siano la stessa cosa, nella misura in cui io divento ciò mi dico, ciò che vivo, respiro e sento, dove il fuori è coinvolto nel mio benessere psicologico, emotivo ed energetico e quindi assolutamente complice del mio stato di salute.
Posso quindi riscrivere il mio corpo? Scrivere una nuova espressione genetica allineandomi biologicamente con la guarigione desiderata ? E per guarigione non intendo necessariamente da un male diagnosticato, ma dalla propria pena, dal proprio peggio, insegnano al corpo altre informazioni, riprogrammando il cervello, le emozioni e quindi una narrazione oltre quella prevedibile. Si può modificare la risposta interna cambiando interfaccia con cui guardiamo e viviamo il mondo, per esempio incarnando lo stato che desideriamo raggiungere in modo vivido come se fosse già reale, disidentificandosi, appunto con il problema in quanto disagio, ma analizzando ciò che mi è accaduto e ciò che sto vivendo, come un messaggero che arriva per diagnosticare per esempio una verità silente, a mettere in luce ciò che era nascosto, una domanda che vale la scoperta di conoscere e ascoltare in altri modi se stessi e poter esser per se stessi il proprio caso studio, unico e singolare, poiché unici e singolari siamo, per tanto non correttamente facenti parte di una statistica universale e quindi possibilmente anche qualcosa che di inaspettato può accadere fuori dalla regola.
Accogliendo un panorama più ampio dove è possibile riscrivere la propria storia biologica, da 8 anni a questa parte mi metto al centro dell’analisi, dentro un mondo di cui osservo i mutamenti che crea al mio corpo in risposta ad abitudini, contesti e relazioni con cui entro in contatto, dove mi rendo conto che il risultato del mio stato psico-emotivo non cambia solo se ripeto la storia, quindi stesso luogo, stesso ambiente, stessa aria, stesso cibo, stesse esperienze, stesso modo di vedere le cose, stesso modo di svegliarmi la mattina, stesse parole con cui racconto la mia vita, in sostanza stessi circuiti celebrali che riproducono medesime emozioni, insegnando cosi ai miei geni che c’è solo quello e solo di quello di possono nutrire. Ma se, pensando, sentendo e agendo in maniera diversa, si può insegnare al corpo un nuovo linguaggio, e questo non lo dico io, lo dice la scienza, la fisica quantistica, allora conviene provare a raccontarsi una nuova trama quindi, reinventare un nuovo io, dove io non sono quello che ho a meno che io non scelga di esserlo, e che se voglio diventare altro, altro devo fare, altro devo sentire, altro devo essere, con altro devo stare. Una pianta di ortensia se cresce in un terreno acido i suoi fiori diventano blu, se cresce in un terreno basico gli stessi geni producono fiori rosa. Il DNA della pianta è identico, ma l’ambiente cambia l’espressione genetica che regola il colore dei fiori.
A noi uomini al contrario di una pianta o di un fiore, ci è stata data la possibilità di poterci pensare dove è meglio stare. Una pianta che non rispetta le leggi che regolano la sua crescita muore, noi a differenza sua possiamo spostarci o comunque intervenire e non c’è nulla di presuntuoso, né altero, provare a darsi un tentativo di guarigione oltre i mezzi convenzionali (forse per alcuni aspetti devoti a farci fiorire a metà). Quindi ti chiedo, se oggi se tu fossi una pianta che ha bisogno di fiorire, sapresti riconoscere i fattori che ti possono nutrire e quelli che invece sono veleno per la tua salute? Questo è quanto di più dovuto abbiamo come compito. Ascoltare i segnali del corpo non per farci dirottare ma per guidarci a decifrare quei codici di accesso ad un benessere eterno, forse a questo punto di un’anima che utilizza il corpo come cassa acustica di un sentire che deve essere ascoltato se vogliamo davvero andare dove siamo destinati.
Da quando ho riscritto sopra la mia biologia non ho più avuto ricadute significative. La mia cura farmacologica senz’altro ha contribuito a mantenere la malattia stabile, però, mi chiedo, se non avessi curato quei centilitri d’anima che contenevano informazioni relative a talenti inespressi, sentimenti soffocanti, traumi mai elaborati, verità mai ascoltate, abitudini malsane, relazioni tossiche, sarei comunque riuscita ad abitare uno stato di salute oggi nella norma? Perché se è vero che la pillola per dimagrire non fa effetto su chi continua a nutrirsi in modo sbagliato, allora qualsiasi rimedio di guarigione/tentativo di salvezza, potrebbe essere inefficace se manca la coerenza tra ciò che si desidera e ciò che si fa.
Se può essere un’opzione per la via di un benessere durevole piantarsi altrove è bene provarci, poiché come insegna Madre natura, tutto cresce perfettamente nel proprio ecosistema di appartenenza e tutto appassisce laddove linfa vitale cessa di scorrere, allora ha senso osservare il proprio peggio o il proprio disagio, come una verità che, come accadeva davanti ai mei occhi, (forse) ha bisogno di essere vista e che chiede come una pianta, di prendercene cura, di scrivere la sua storia.
Immensamente A.
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