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25 Febbraio 2024 •   

Ciò che non superi si ripete

Tempo lettura: 12 minuti

Dopo aver ascoltato l'audio scorri a fine pagina per non perderti la traccia finale.

Non c’è malessere più logorante dell’immobilità quando la vivi da cosciente. Quando ti ha irrigidito tutto tranne che la consapevolezza. Perché quando ti senti soffrire significa che qualcosa prima di te sta percependo quel dolore. Che c’è qualcosa prima di te che sta osservandoTi. E mi sembrava che in quel sentire non visibile e non manifestato, di avere ancora una possibilità per salvarmi, perché fintanto che la spugna fai fatica a tenerla tra le mani ma non la getti, vuol dire che c’è rimasto uno spazio per chiedere ancora.

Febbraio 2016 entrai al centro della Lega tumori apparentemente composta, mascherando tutte le mie angosce dietro un sorriso di gentilezza e due linee di eyeliner sulle palpebre tirate a lato in modo totalmente casuale.
Mi consegnarono un questionario di 500 domande a risposta multipla e me ne andai in una stanzetta a compilare un plico di fogli di cui non avevo tenuto conto. Perché quando ti candidi come volontario per il reparto di oncologia, devi sapere esattamente dove ti trovi e a cosa vai incontro, tanto che se non ti è chiaro abbastanza, la tua inesperienza viene facilmente a galla già dalla domanda a pagina 3, che ti rendi conto di quanto la tua ingenuità ritorni a manifestare un’altra volta quello che continui ad evitare.
Rimasi in quel metro quadro dentro la mia immodestia con una sedia un tavolo e una penna, a far credere a quelle “x” che fossi all’altezza di decidere la loro collocazione più corretta.
Ma quando prendi certe strade non puoi andare a caso, anche se ci stai mettendo tutta la tua moralità, perché se pensi basti la tua onestà a renderti affidabile, va a finire che poi qualcuno se ne accorge che non sei per niente pronto e senza troppa riservatezza e misura, ti scompone in una manciata di minuti la scarsità di preparazione superficialmente nascosta dietro un po’ di mascara e una stretta di mano più forte del solito, ma troppo poco stretta per essere convincente.

E quel qualcuno fu la dottoressa Paola.
"Piacere sono la dottoressa Paola e sono la psicoterapeuta che analizza i questionari dei volontari e l’idoneità all’attività".
Punto secca. Non aggiunse nient’altro. Perché chissà quante persone come me aveva visto nella sua vita improvvisarsi capaci di reggere un confronto del genere e per confronto, si intende entrare da persona intera nell’intimità di una famiglia e di un bambino che ha a che fare col cancro. 

Le consegnai il questionario dopo essere stata richiusa in quella stanza per 2 ore mentre realizzavo allo scattare di ogni mezz’ora quanto quella, fosse una cosa seria.
Arrivò alla pagina 3 di 30, non girò un solo foglio in più poi, guardandomi dritta negli occhi, mi ripetè la domanda a pagina 3. Come mai avessi scelto proprio l’oncologia.
Mi sembrava di trovarmi di fronte alla mia insegnante di arte quando all’esame della mia maturità mi chiese come mai avessi deciso di portare kandinsky. E ricordai in quel momento di quanto anche la miglior risposta non renda incrollabile il grande perché di una domanda, quei perché dell’uomo che se chiesti e risposti, ti danno una parvenza di senso compiuto, che abbozzano un tentativo di interrogazione con se stessi e che ti fanno pensare o forse solo anche darti l’illusione, di credere che ciò fai o come ti muovi nella vita, sia stato davvero pensato. 

Una risposta in realtà per la prof di arte la trovai, ma per la dottoressa Paola no, perché dire solamente di voler stare vicino ad un malato , non è di certo una risposta che basta a reggere il peso di quell’intenzione. 

Ma  gli psicoterapeuti lo sanno, loro lo conoscono a memoria quel rivestimento sotto cui si mascherano le alternative, le via di fuga e i pretesti che metti in piedi per per deviare da te stesso. E che no. Non puoi aiutare nessuno, tanto meno un bambino malato, perché semmai quel bambino avesse bisogno di qualcuno, non è di certo su un essere umano a sua volta bisognoso su cui può appoggiare la sua mano, perché questo, vorrebbe dire crollargli davanti in mille pezzi. Cosi a quella domanda <Perché - proprio- oncologia?> gli occhi mi si riempirono di lacrime e la voce si annodò in gola.

Quel giorno ero arrivata alla lega tumori con un grande bisogno. Sentire il mio cuore. Mi sembrava che la vita fino a quel momento non fosse riuscita mai abbastanza ad estrarmi da dentro come un bisturi molecolare l’amore che desideravo sentire. Allora avevo pensato che stare vicino a qualcun altro, mi avrebbe dato la possibilità di rendere la mia esistenza valevole, di riempire quello stato di vuoto che sentivo abitarmi dentro.

E fu in quel momento che Paola si accorse che stavo cercavo di liberarmi con delle opzioni. Se ne accorse da quella stretta di mano flebile e da quel tentativo di arrampicarmi ad una risposta decente, che dietro quel gesto seppur ammirevole, c’era la disperazione che stava cercando soccorso e che per questo, non avrebbe potuto in alcun modo permettermi di essere un volontario del reparto oncologia. Per tutelare la mia fragilità. Per tutelare la sacralità dei margini di errore quando sono sottili, come contaminare quel tempo massimo dentro cui quel bambino deve concentrare tutti i compleanni della sua vita, permettendo alla sensibilità del tuo nervo scoperto di sgorgagli addosso i traumi che lo hanno deteriorato e che non hai mai elaborato.


Mi chiese se me la sentivo di fare qualche seduta di psicoterapia.
Non devi farlo necessariamente con me, puoi trovare qualche psicoterapeuta nella tua zona. E’ importante che però tu prenda in considerazione l’idea che sia tu a  farti aiutare. Ti lascio il mio biglietto da visita, pensaci.

Quel giorno, dopo l’incontro con Paola, rimasi seduta in macchina a fissare quel numero di telefono riportato su quel pezzo di carta e ripensavo a qualche ora prima, nel bagno di casa, quando allungavo lo sguardo con due linee nere sulle palpebre, che non c’è trucco che tenga davanti a due occhi che non dicono la verità.

Ciao Paola sono Alessandra, mi dica lei quando possiamo iniziare. 


Credevo fosse una cosa superata, insomma, credevo di averci provato almeno già una volta a lavorare sui temi più svariati del perché un uomo entra in terapia. Lo avevo già fatto un anno e mezzo con Paola, una volta alla settimana, in tutte quelle volte dove mi ha passato il pacchetto di fazzoletti dalla tasca destra della poltrona.
Credevo di averlo già fatto quando se ne rimaneva seduta di fronte a me con le gambe accavallate annotando su un taccuino nero grande come la sua mano, i punti su qui abbiamo tracciato i miei primi 30 anni di vita. Quando abbiamo dato un ‘ordine cronologico agli avvenimenti, spacchettato i ricordi uno alla volta, sistemato ciò che si poteva ancora recuperare, buttato ciò che non era più necessario, e considerato le variabili che non avevo mai tirato verso nessuna direzione, per commuovermi su quello che non avevo mai capito.

Credevo di averlo già fatto, quando ci prendevamo delle pause di 10 giorni come a lasciarmi elaborare tutte quelle storie dentro una molla che allunghi e ritiri fino a farle perdere la sua resistenza.

Per stemperare la rabbia. Per entrare ed uscire dalle cose. Per abituarmi a starci insieme, per abituarmi a starci lontano. Per capire se facevano ancora tanto o poco male. Per disilludermi del fatto che avessi superato il passato. E infatti si, di comprendere avevo compreso, per non fare l’errore di non ricordare o di ricordare male. Per non fare l’errore di rimanere nel groviglio che intrappola anche le cose belle, per stare alla larga dal rancore, integrare compassione e gratitudine, per imparare discernere e a snodare, cosi da non avere colpevoli a cui attribuire i miei malumori, tutte azioni necessarie per bilanciarti la vita con 2 pesi e 2 misure.

Invece a distanza di 9 anni, da quando dissi  Paola che ero pronta per ricominciare il mio cammino senza il riverbero del passato, da quando le scrissi del lavoro che stavo facendo su di me per cui manifestava il suo orgoglio, mi trovavo nuovamente a sentire quel vuoto, perché io in realtà, quel vuoto l’ho solo riempito.

 Quel vuoto che sentivo dentro da quando ho memoria, apparteneva ad un nervo scollegato che mi ha dato l’impressione di non permettere alla linfa vitale di attraversare, tanto al punto che quando mi sono ammalata di sclerosi multipla, di quella malattia che distrugge la guaina dei nervi del sistema nervoso, non mi sono meravigliata nemmeno per un attimo di essermi addirittura ammalata a furia di aver passato tutta la vita ad aggiustare quel filo per dargli corrente.

A Febbraio del 2024, mi trovavo in una sagra di paese nel Monferrato con i miei genitori. Ero andata da loro qualche giorno per stare in silenzio in mezzo alle colline, leggendo al sole e dormendo con i miei cani. Perché questa volta il vuoto non volevo più riempirlo, al contrario attraversarlo. 

Perché di aggiungere avevo aggiunto, di riempire avevo riempito, ma ho avuto in cambio un senso di pienezza che ha nutrito solo la forma, affidando totalmente alle cose e alle persone il compito di rendermi intera e cosi negli anni, avevo iniziato a dare a ragione Eckhart Tolle  quando nel suo libro “Un nuovo mondo” scrisse :

Se non riuscite più a sentire la vita che c’è in voi probabilmente cercherete di riempire la vita di cose. Dovete stare molto attenti se il valore che attribuite a voi stessi è legato a ciò che possedete”.

Quella sera, alla sagra, un’amica che non sentivo da tanto tempo mi scrisse un messaggio per sapere come stavo e tutto ad un tratto mi disse: "Sai Ale, ho conosciuto questa persona, fa costellazioni familiari, non so ma c’è qualcosa che mi dice che dovresti incontrarla".

Rimasi un po’ stupita. Insomma, perché consegnare quel messaggio proprio a me? Ma ho sempre avuto la certezza che la vita fosse capace di architettare tutto. Mi è piaciuto credere che fosse cosi, anche quando ti ha posizionato davanti persone e avvenimenti non sempre piacevoli, ho pensato che il loro compito fosse quello di farti superare il tuo scopo più grande. Liberarti dal trauma e che, il libero arbitrio che ci viene dato, non è che una possibilità per evolvere , oppure un’ occasione per rimanere mediocri. E che ciò che non superi poi si ripete.

Avevo già sentito parlare di costellazioni familiari ma non avevo mai approfondito il tema e non lo feci nemmeno quella volta, fatto sta, che qualche giorno più tardi, diedi spazio a quel non-caso, per non mettere degli argini alla vita vuole condurti dove sei destinato.

A distanza di 9 anni, mi trovavo in un’altra stanza  che non era più quella dove avrei dovuto trovare risposta a 500 domande, in una di quelle stanze dove entri senza scarpe, in punta di piedi con una candela, un incenso sul pavimento e una donna che hai solo sentito una volta al telefono ad attenderti, in una di quelle stanze dove anziché aggiungere si toglie. 

Mi aspettavo di dover parlare di qualcosa. Questo sapevo fare. Parlare.

Non mi interessa cosa pensi. Disse. A me interessa sapere cosa senti e non me lo devi spiegare. Perché non siamo qui per essere pertinenti, siamo qui per dichiarare resa. 


Il corpo ha una memoria, a volte basta una sola parola nel momento giusto, capace di scoperchiare tutto. Impulsi di energia sottili che con quella frase, avevano toccato con tutta la loro forza quel nervo scoperto senza preoccuparsi di quanto avessi passato tutta la vita ad edificargli intorno muri invalicabili purché non venisse in alcun modo sfiorato. Avevo architettato minuziosamente tutta la struttura intorno pur difenderlo. La personalità, il lavoro, le relazioni. Tutto al suo posto, tutto per bene, tutto ad un metro di distanza.

E poi ad un tratto mi sono ritrovata per puro caso, che forse tanto un caso non è stato, in piedi davanti a lei, davanti a quella richiesta “ fammi- vedere-cosa-senti, e l’unica cosa che fui capace di fare è stata piangere ininterrottamente. Perché di parole capaci di poter spiegare ciò che sentiamo non ce ne sono. Non esistono parole in grado di decodificare  le emozioni. 

Tentai di farlo ma mi disse di non provarci nemmeno per scherzo. Questa volta devi uscire dal mentale. Questa volta come ti senti lo devi esprimere col corpo.

Mi chiese di alzarmi, e senza troppi giri larghi, quelli che io conoscevo molto bene pur di prendere le distanze dal centro di una verità silente , rimasi di fronte a lei in piedi, tenendo dentro un pugno pezzi di carta igienica sbriciolati dalle lacrime. 

La mia emotività anagrafica  si accorse non corrispondere a quella di una ragazza di 35 anni, tanto al punto che senza troppi preliminari mi chiese di portare alla voce il desiderio di quella bambina interiore che lei ha capito subito, essere colei che per tutta la mia vita, con le sue fragili dita, se ne è rimasta seduta su quel nervo strappandone un pezzo alla volta, fino a scomporlo, creando quello stato di separazione chiamato vuoto, quel filo che se tagliato slega un uomo al suo piccolo sé.

Dimmi cosa vuole! Continuava a ripetermi con quell’atteggiamento provocatorio per persuadermi dal manifestare a grand voce i suoi bisogni.
Non riuscivo a dire una parola. Le mascelle mi si paralizzarono. Io non ero capace di aprirle per dare voce con chiarezza ai miei bisogni. Io tentenno, giro intorno, sono molto brava a farmi sfuggire la vita dalle mani. 

Poi ad un tratto, dentro un incessante singhiozzo, il respiro affannato e la vergogna a dichiarare, dissi:

Io voglio essere vista. Voglio che qualcuno giochi con me.

Simonetta  se ne stava di fronte a me in quella stanza a provocarmi una reazione. 
Quando mi chiese di guardarmi intorno e di prendere qualsiasi oggetto per incominciare a giocare, gli occhi, mi si riempirono d’acqua, lo stomaco si ritirò e i miei piedi non furono in grado di avanzare nemmeno di un millimetro. 

Rimasi bloccata cosi per lunghissimi 10 minuti. Quella bambina si, voleva giocare. Ma io che ne so come si fa. Poi, lentamente apri gli occhi e avanzai verso la libreria e con un grande senso di vergogna, ho sfilato dalla mensola un libro.
Con tutte le cose che ci sono in questa stanza vuoi davvero giocare con libro Ale?

Mi fece lanciare quel libro come lo lancerebbe una bambina di 5 anni. Invece io lo misi di nuovo la suo posto da brava bambina, perché è cosi sono stata cresciuta, a guardare senza toccare e se toccavo a rimettere a posto senza farmi vedere.

Camminavo per la stanza aggrappandomi a quel pugno di carta nelle mani, cercando qualche altra cosa da prendere, finché arrivai davanti ad un acchiappa sogni. Dai gioca con questo mi disse. Ma no, non mi allungai per toccarlo. Lo guardavo come al mio solito ad un metro di distanza, dove in ogni minuto che scorreva in quella stanza ,capivo di quanto la mia sofferenza appartenesse alla parola “Permesso”.

Qualche istante più in là senza averlo troppo pensato, mi ritrovavo al centro della stanza in ginocchio con di fronte un tamburo e Simo da lontano esclamare a bassa voce un finalmente. 

Quel giorno osservandomi dall’esterno in ginocchio alla mia età con un tamburo e una bacchetta tra le mani, ripensavo a tutti i “non fa niente” che avevo detto nella mia vita, i non fa niente quando non hanno chiesto di me, quando non hanno parlato con me, i non fa niente se non è andata come avrei voluto, i non fa niente se poi la sera quando torno a casa a furia di dire non fa niente, mi sono scordata il sapore della mia verità. 

Da quando presi le bacchette a iniziai a suonare il tamburo, passarono diversi minuti. Mi sembrò che passò un eternità. Perché di fatti erano passati più di 30 anni ,prima che mi diedi il permesso di fare rumore, libera di essere quella bambina che non sono mai stata. Iniziai con un battito lento poi picchiai quel tamburo con tutta la mia forza e quando fui fermata da un urlo liberatorio, sprofondai un pianto e provai una grande tenerezza per me stessa.

Ripensai a tutto ciò che non avevo mai fatto pur di non disturbare, persino al corso di danza classica, che tanto a stare alla sbarra te ne rimani lí, nel tuo piccolo metro quadro a fare demi-plié e grand plié e fine del discorso. Niente a che vedere con il prendersi altro spazio, riempire la dimensione, pronunciare la fame del corpo a botte di pancia contro l’aria. 

Vivi tutto come trattenendo un orgasmo, come dall’ultima fila di un grande spettacolo dove si partecipa ma senza che qualcuno ti veda, in quella prospettiva ultima dove ci sei solo tu e quel senso di vergogna che paralizza il desiderio ad avanzare.

Cosi puoi dire di averlo fatto si, di aver vissuto, di esserci stato, ma senza fare rumore. Perché ti sei abituato cosi tanto a trattenere, fino ad inibire le tue volontà, a proibirti di sgranare l’invisibile, che hai  finito per ultimo a separarti da te stesso.
Me ne accorsi, quel girono in quella stanza, in quei lunghissimi 10 minuti dopo 34 anni e 4 mesi, che quel vuoto che sentivo, era una parte di me che era stata messa a tacere.

Quella bambina non avendo mai vissuto, non aveva potuto insegnarmi ad essere leggera, a fare pasticci, ad urlare, ad avere quel coraggio che hanno solo gli adulti che sono stati bambini, di rendere tutti i loro bisogni un’urgenza. 

Invece lei aveva vissuto l’isolamento, la magrezza dello scambio, apparentemente troppo bassa per poter essere vista da quelli un po’ più alti. E cosi mi sono ritrovata da grande con una serie di complessi, il primo fra tutti, l’incapacità di ascoltarmi.

Quel giorno mi furono chiare le generalità di quel vuoto.

Negli ultimi tempi ho pensato che avrei dovuto di nuovo riempirlo. Che so, magari di nuovo Londra. Magari di nuovo altri progetti, magari di nuovo qualcos'altro. Invece quel giorno mi accorsi che quel vuoto ha bisogno di rimanere vuoto. Che quel vuoto è una parte di noi che abbiamo fatto morire, è un bambino che ha provato a tendere quel filo per portarci dalla sua parte, per ricongiungere ciò che era disunito e che nulla, è stato e sarà capace di renderti intero, fino a quando non sarà quel bambino ad essere la parte a completamento di quello spazio divisorio, dell’altra metà.
E a quel punto, dandogli la tua attenzione, ti sarà sufficiente dargli una stanza e le cose che banalmente gli piaceva fare, ed in cambio ti rieducherà a chiedere. Ti rieducherà a darti il permesso di amarti e quella corrente che era andava via momentaneamente, ritornerà ad illuminarvi occhi, cosi che col cuore guarito sarete pronti a chiedere senza più vergogna ciò che meritate di ricevere.

Immensamente A.


Clicca sulla copertina del disco per ascoltare tutta la traccia in versione completa.

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