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A distanza di molti anni dal tormento di vivere una vita insoddisfatta mi chiedo: “ Se avessi avuto tutto ciò che desideravo avrei mai incominciato a cercare?".
Se tutto fosse stato al suo posto ogni volta che ne avevo bisogno, se avessi trovato sempre formule matematiche da poter applicare in cambio di conferme, avrei mai fatto esperienza della conoscenza? Ma soprattutto, se non avessi vissuto l’attesa dei ritardi, come avrei potuto aprire il pensiero più in là? Il fastidio di quella scomodità iniziò a farmi considerare la mancanza come una benedizione, la rabbia prodotta da ciò che sfuggiva al mio sapere, fu il sentimento che mi mise in movimento per non commettere che le interpretazioni facessero acqua da tutte le parti. È stata dura contenere i danni di una vita che posticipava sempre le sue dichiarazioni, ma oggi mi dico meno male che è andata cosi, meno male aver vissuto la sua irreperibilità, come mi sarei mai spinta a guardarmi dentro per trovare qualcosa di più affidabile?
Ciò che non si vede nasce per essere cercato, ci fa venire gli occhi a forma di fede e braccia lunghe lunghe per raccogliere presa, crea la strada per il desiderio a conoscere cos’altro c’è, ci fa combattere contro la fame di un amore nutrito male, sulla rivincita della sua pena, ma più lontano ancora ci attacca alla vita, verso ciò che può ancora accadere, con una dedizione cosi viscerale da non accettare che non abbia né merito e né gloria. Perchè se l’intuibile è di per sé non esplicito allora è si è legittimati a credere che ciò che non si vede possa anche non esistere, oppure esistere altrove e che l’altrove può senza alcun dubbio diventare un luogo dove andare a chiedere.
Saremmo potuti rimanere fermi nelle retrovie della vita difesi delle prudenze, lamentarsi senza agire e continuare a vivere con l’odore delle strade ricalpestate avanti e indietro dove pure dell’aria si respirava il suo disinteresse a rinnovarsi. È cosi che ci saremmo sentiti a rimanere da quella parte, a rimanere dipendenti all’unica cosa che di sé si era conosciuta, avremmo vissuto come fanno i codardi, come un soldato che rimane in coda alla fila pur di non affrontare ciò che è chiamato a fare perché lo spaventa, cioè difendere ciò che va salvato.
Non si poteva rinunciare a conquistare per paura di fallire, non si poteva smettere di sapere quindi, il sapere a quel punto era l’unica cosa che non poteva avere limiti, sapere che adulti saremmo potuti diventare per quei bambini un po’ goffi nel prendere parola, che tipo di destino avremmo potuto dare alla loro voce, se saremmo stati in grado di ridare ai loro occhi l’immaginario fantasticato dai posti finestrino, se avremmo avuto coraggio abbastanza da non avere esitazioni a scoperchiare pur non avendo garanzia di trovare convalide e quanto il credere che esistesse qualcosa oltre il visibile, ci avrebbe fatto sempre da faro davanti all’ansia dello smarrimento e il costante sospetto della buona riuscita.
Riconciliare ciò che non si vedeva a ciò che per qualche strana ragione sapevamo esistesse, voleva dire sfidare le leggi della natura, uscire fuori consapevolmente nell’imprudenza di attraversare il mare aperto con una zattera fatta solo di sogni attingendo unicamente a quella risorsa immateriale che ognuno ha sentito contenere dentro si sé, che per quanto non manifesta, era evidente che fosse il cuore nevralgico che ci avrebbe permesso per lo meno di avanzare e poi forse di lottare per la sua realizzazione andando incontro le correnti più ostili.
Per conto di quel credo indecifrabile eppure più forte di qualsiasi precauzione più attendibile, alcuni si sono spostati verso quell’altrove , tenendo in una mano il ricordo della precarietà e nell’altra la sete del suo compimento, come se per procedere verso l’ignoto, un pugno vuoto potesse valere come promemoria tanto quanto il desiderio, come se il desiderio per alimentarsi avesse bisogno di ricordarsi da dove venisse.
Il desiderio di prendere la propria non replicabilità di vivere una volta sola e solo ora, sembrava comunque già essere una valido perché per provare a ricominciare da capo se stessi nell’invisibile oltre, cominciando quindi dal far pervenire l’incognita come una direzione possibile.
Ma quanto saremmo stati capaci di resistere là fuori affidandoci ad un sostanza proveniente solo dall’intuizione, se la vita avesse preso quel credo tanto irruente quanto indefinito, e lo avesse stramazzato al suolo per scelta, per incuranza e un po’ perché la non immunità è per tutti morale applicata inequivocabilmente?. Perché questo della vita è un gioco dove le regole non si conoscono fintanto che non si gioca, ti senti accolto volentieri facendoti sentire assolutamente degno di lode solo per esserti fatto venire l'idea che qualcos'altro da scoprire ci fosse , per poi buttarti improvvisamente a nutrire quell'idea di approssimazione, quando la responsabilità di portare avanti l'intenzione era cosi alta da incominciare ad abbinare il suo compimento alla sorte, alla mediocrità o al buon costume.
Sembrava che la vita non ci avesse ascoltato quando battevamo i piedi per avere cose straordinarie, invece lo ha fatto, cancellandoci tutte le possibili conseguenze a cui va vanno incontro richieste con una posta cosi alta, perché le cose straordinarie per costruirsi non se ne fanno niente delle buone intenzioni, hanno bisogno di persone pronte ad addentrarsi ogni giorno il più lontano possibile dalle proprie certezze, vivendo costantemente un passo davanti al sapere, affinché sentirsi sempre i soli responsabili della propria affermazione, si scateni contro la propria conoscenza come una bestia verso la sua preda.
Come riuscire a conservarsi davanti a questa severità, se la vita l’uomo contemporaneo lo tratta come ospite indesiderato? Le viene facile il paragone con chi la competizione alla sopravvivenza è sempre stato un gioco senza fine, prede e predatori, abili trasformisti, che per dare testimonianza della propria storia, hanno percorso decine di migliaia di chilometri affrontando i percorsi più infidi pur sapendo di rischiare di morire, preferendo andare incontro a una morte probabile per sottrarsi a una morte certa.
Invece l’uomo dei giorni nostri la fame quella vera forse non la conosce e parla di realizzazione senza avere la struttura morfologica necessaria per sacrificarsi, pensando di comprarla ad un costo accessibile, meglio se da una scorciatoia, nell’era del tutto e subito dove siamo sempre più vicino ad affermazioni scandenti e ricchezze last minute.
C’è da chiedersi quanto mai possa durare ciò che si avvalora di un pensiero sintetico, quanto mai un pensiero dove il denaro è lo scopo ultimo, diventato come dice Galimberti, il generatore simbolico di tuti i valori, possa cosi partorire un credo capace di conservarsi nel tempo distante dalla cura e l’attenzione, dal sacrificio e dalla disciplina dal metodo e dalla pazienza.
Il nostro successo diventa cosi direttamente proporzionale alla materia di cui si compone chi lo ambisce e questa più che una regola è un’esattezza che la vita non manca a consegnarti ogni volta che si finisce sul fondo, ovvero capire che prima di volere, bisogna conoscere di cosa è fatto chi è che chiede, non un passaggio che si può di certo saltare poiché si crea quello che si è, si crea solo solo quando ci si è creati, quando diventa indiscutibile che la fonte da cui si nutre quel credo indecifrabile è ben distante dalla pretesa e molto più vicino ad un intento di cui il suo significato è stato più e più volte interrogato. Sarà inutile implorare, ostentare ambizioni e partire nell’altrove con la speranza che il coraggio basti a se stesso per dar vita alla visione. Certo che servirà, servirà eccome avere gli occhi a forma di fede, ma dovranno essere pronti a contenere lacrime, sudori e privazioni, proprio perché la vita sembra funzionare laddove non si evita il dolore.
Chi sottoporrà al regime la propria condotta e a chi il tempo sarà dedito all’impegno costante per produrre sapere, sapere di sé e poi sapere di ciò che non sa, tutto ciò che prima sembrava sempre sottrarsi dalla sua confessione non mancherà ad arrivare in orario con le sue dichiarazioni, ad elaborarci calcoli che non portino più errore, poiché si comprenderà che tutto si regolamenta solo e solamente in uno scambio alla pari tra il dare e il ricevere e che l’ altrove sta all’atteggiamento come il seme sta alla terra.
Non sopravviveranno i più audaci, né i più intelligenti, ma quelli che si adatteranno meglio all’incuria del moto che non ha alcuno scrupolo di tutelarti dal crollare, a chi guarderà le cadute come il risultato dell'arroganza con cui tratta le sue lacune, a chi si toglierà dal ruolo di vittima, sapendo che si riceve sempre un’ esistenza ordinata secondo giustizia, non il suo desiderio, non la sua preghiera, ma solamente ciò che gli spetta, il riflesso dei propri standard.
Quando saremo disposti a stare sotto la terra, fiorire a quel punto dipenderà solo da noi, non basterà che ci faccia onore scegliere di soffrire per un po’ di libertà, serviranno abilità che sappiano far durare i frutti che la cura ha generato, poiché anche in quell’altrove finalmente raggiunto, la vita non rinuncerà a quella brutta usanza di sganciare mosse imprevedibili.
Ben verrà attraversare questa ostilità però, che rimanere nelle retrovie a calpestare una vita usata credendo che fosse la sola che ci saremmo potuti permettere, ma non tanto per la rivincita che ci verrà concessa sulla pena, quanto più per averci creduto almeno una volta anziché aver mentito male due, per quell’accordo che gli adulti hanno mantenuto ai loro piccoli, in quel legame silente fatto di tante battaglie e poche parole, dove insieme, si è diventa promessa.
Continuare avrà a che fare solo con una scelta di vita, perché a chi affidabile a sé stesso è diventato, giustizia sarà comunque fatta.
Benvenuta straordinarietà.
Immensamente A.
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