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Mia nonna mi chiamava Alessandrù, prima di incalzare tutta lista dei nomi dei nipoti. Luca, giulia, Sonia, Noemi, massi.. Nonna sono Ale. Ah Alessandrù amore come stai?
Con nonna ci sentivamo alle 14.00 del pomeriggio quando andava via la badante, cosi almeno lei poteva passare una buona mezza’ora a farmi la lista di tutte le cose che si era mangiata quella lì, cosi la chiamava, anzi le chiamava, perché nonna da quando si era rotta il femore che l’ha costretta a stare su una carrozzina per 8 anni, ha avuto più badanti di una formazione calcistica e che potevi prendergliela mora, bionda italiana o ucraina, che tanto non era mai quella giusta, perché quelle lì, potevano essere le persone più brave del mondo ma che per lei, averle nella sua casa, era solo un modo per ricordarle la sua disabilità.
Da nonna ci ho dormito 18 mesi su uno di quei letti richiudibili che tanto che ero piccola ne occupavo solo la metà. Dormivo in sala con mamma e papà e mio fratello, quando gli ufficiali giudiziari erano passati da casa nostra per portarci via tutto. Nonna diceva che quelli erano venuti per prendere le nostre cose e portarle in una casa più bella. Babbo Natale quell’anno non era passato perché non ci aveva trovati, diceva, sarebbe tornato l’anno dopo con il doppio dei regali, in quella casa più bella che in realtà non esisteva ma che nella mia mente invece lei l’aveva fatta esistere per davvero.
Mi rassicurava però che avrebbe dato l’indirizzo giusto almeno alla befana, cosi la mattina del 6 gennaio la sentivi trafficare in cucina per garantirci di essere per qualche istante dei bambini come gli altri ed io ricordo, tenendomi le maniche del pigiama tra le dita, con i piedi scalzi e la finestrella tra i denti, di aver incominciato a credere che lei era molto brava a raccontare le storie. Ci fece trovare una calza nera attaccata alla porta di ingresso, quelle di cotone delle bancarelle visibilmente prese dalla biancheria del cassetto di papà. Ci aveva messo dentro il cioccolato, gli ovetti kinder e le caramelle Elah, tutto di marca per una volta, e poi una banconota blu, di cui non ne conoscevo il valore, ma che quando erano rosa sapevano che erano poche e quando erano blu erano tante.
Con nonna mi guardavo tutte le telenovela del palinsesto di canale 5 passando tra Vivere Centovetrine e Beautiful.
Ho visto morire e resuscitare Taylor per 2 volte mentre ritagliavo le facce sulle riviste di Novella 2000 che mi dava per farmi occupare il tempo. Poi quando mi stancavo, andavo in bagno e giocavo con il rossetto rosso di zia che mi spalmavo ovunque tranne che sulle labbra e quando avevo finito, mi tagliavo le ciglia perché le mie compagne di scuola le avevano più corte delle mie. Andavamo alla Vegè cosi lo chiamava il piccolo supermercato di paese sotto casa dove andavamo a comprare le michette dopo che eravamo state al cimitero a trovare nonno, che io lì dove ci sono le persone morte, non ci volevo entrare le dicevo, cosi mi lasciava da massi il fiorista, tanto io ero abituata a stare con tutti quelli dei palazzi della via padretti 10 e che a 6 anni lasciarmi da sola dal fioraio, voleva dire ritrovarmi seduta su uno sgabellino vicino alla cassa a mangiare caramelle Rossana e a passare il resto in lire alle signore mentre mi picchiettavano la testa dicendomi che ero una brava bambina.
Nonna aveva le tette enormi, le gambe grandi il braccio destro invalido e un grembiule a fiori, che poi non ha più messo da quando è finita sulla carrozzina. È dalla carrozzina che ha iniziato a raccontarmi tutta la sua vita tra le 14.00 e le 16.00 del martedì pomeriggio quando andavo a trovarla dopo aver mangiato un piatto di pasta al sugo preparato con la sua supervisore perché le badanti diceva mettevano nel sugo le cose loro.
Nonna se ne stava da sola in quella camera nelle 2 ore di riposo a guardare il soffitto. Non accendeva più nemmeno la televisione, mi diceva che era stufa di guardare la tv. Per ammazzare il tempo iniziava il giro delle telefonate partendo dai nipoti più piccoli, poi arrivava a quelli più grandi e quindi poi arriva a me, cosi le dicevo che sarei andata a trovarla e che quella era l’unica promessa che dovevo mantenere, che agli altri avrei potuto dare buca, ma a nonna no.
Devi scrivere un libro sulla mia vita mi diceva, quando seduta di fronte al suo letto sulla sedia di pelle che le aveva regalato la signora catuzza, partiva coi racconti su nonno che andava a raccogliere i fili di rame per venderli, di quando faceva l’operaia alla Gerli, che ci andava in bicicletta con un braccio solo perché l’altro non funzionava, o quando era incinta e nascondeva la pancia sotto le tuniche per non farsi licenziare. Mi ha raccontato di quanto odiava sua madre e di quanto amava suo padre. Diceva che lui era spesciale con la s.
Di quando è morto Giulio il suo primogenito dopo 7 mesi, di nonno che le aveva comprato la camera da letto che tanto le piaceva, di quando ti incastrava nel lignaggio del parentado dove la zia del fratello della cugina di maria, per me, non ha mai avuto un volto e che per me era solo la zia del fratello della cugina di maria o del suo matrimonio e del fatto che fossero solo in 6, perché nonna aveva un braccio invalido e quindi lei avrebbe portato sugli altri il velo della vergogna.
Nonna non ha mai saputo della mia malattia, a nonna le raccontavo solo le cose belle, di quando ho aperto la mia attività di eventi, che lei chiamava ristorante perché location ed eventi erano due parole troppo complesse, cosi le metteva nella categoria di quei lavori dove si lavora fino a tardi, si mangia si beve e ci si diverte. Il ristorante.
L’hai finito il libro Alè, il libro che stavo scrivendo, il libro che non ho mai finito di scrivere, il libro di cui voleva averne un pezzetto, una riga una traccia di lei e quando mi chiamava Alè, con l’accento sulla e, era per rimproverami per dirmi di muovermi per ricordarmi di fare attenzione.
Nonna ti voleva felice, me lo diceva sempre. Anche quando mi sono trasferita a Londra, dove c’era la regina le dicevo, e lei mi chiedeva se per andare là si prendesse l’aereo perché prenderlo per lei voleva geolicalizzare nella sua mente un posto lontano, lontano da chi diceva che sarei tornata dopo un mese, da chi vedeva nei miei tentativi di salvezza “un’altra cosa delle mie”. Lei era una delle poche persone che nella mia drasticità ci vedeva una misura di sicurezza, come quando da adolescente scappavo da tutti e andavo a dormire a casa sua portandomi dietro una mutanda e uno spazzolino, che tanto non avevo bisogno di niente ma solo di uno spazio in cui sentirmi libera dal giudizio.
Perché io non li ho mai conosciuti i passaggi graduali, il prepariamoci a cambiare. Io non so cosa sia dare una seconda mano. Mi pareva che andando su con un’altra passata di vita si coprisse la menzogna. Mettere la polvere sotto il tappeto, fare finta di niente, cosi ho messo metto punti e sono andata a capo perché per me quell’azione divisoria mi dava l’impressione di trovare più in fretta le risposte. Ho faticosamente imparato a stare alla larga dagli elastici che allungano l’agonia, che se da un lato era estremamente protettivo essere esattamente in mezzo tra i due lembi, dall’altro, penso di essermi ammalata in quello spazio di sospensione dove non appartieni né un estremo e né all’altro. Mi sono spostata frettolosamente quando non mi sentivo più utile, quando non avevo più che consumare, accartocciando la mia vita come una pallina di carta fino a diventare la persona peggiore con cui potessi stare.
Nonna questa cosa l’aveva capita a modo suo. Mi chiamava l’americana, la ribelle, sfuggente irrequieta, che quando tornavo da Londra per far visita, quando ancora camminava, quando la portavo a fare la spesa e pagavo io perché farlo mi dava l’impressione di essere diventata ai suoi occhi più grande, me lo diceva che io ero imprevedibile, ma non cosi, non usando le parole che raccolgono i concetti, mi diceva dove ti lascio la sera non ti trovo la mattina, ed io non facevo altro che sorriderle, rassicurandola del fatto che prima o poi mi sarei fermata, perché si, io ci ho sempre creduto che prima o poi il mio posto nel mondo, il posto in cui mi sarei sentita totalmente me stessa, lo avrei trovato.
In molti hanno creduto che io stessi scappando da me e mi sono sempre chiesta chi è che non lo fa. Ho visto persone fuggire dalle proprie ombre rimanendo ferme in un vita dove si sono ammalati a furia di subirla, e una di quelle persone ero io. Perché io nella sclerosi multipla non ci ho visto la mira sbagliata di Dio, ho scelto di vederci il grido di aiuto di un’anima intrappolata nel bisogno di liberarsi, l’urgenza di essere solo quello che era.
Invece io ho passato gran parte del mio tempo ferma a compiacere per non deludere le aspettative, ad essere assertiva, accomodante perché era cosi che credevo di poter essere vista, capita, dove in ogni si signore, si , in ogni si hai ragione tu, in ogni volta che ho desiderato il tempo di qualcuno, mi si è infilato dentro il pensiero che i miei bisogni, non fossero abbastanza degni di merito.
Allora sono andata là fuori nel mondo a distrarmi si, l’ho fatto. Mi sono anestetizzata per non sentire, ho messo in pericolo la mia vita, ho fatto cose che non rifarei, sono andata contro la mia natura e ho ripetutamente fallito fino a consegnarmi nelle mani della terapia e poi in quelle del fato, fino a rimanere seduta in un angolo della cucina per giorni grattando lacrime dalle pareti di uno stomaco vuoto.
E forse è per questo, per aver conosciuto la parte più bassa della materia, per aver permesso al mio corpo di ammalarsi, per le volte che dire si voleva dire no a me stessa, che io oggi se sto affogando, lascio un braccio in alto tenendo la vita dentro un pugno, affinché lei fuori dal baratro, possa afferrare qualcosa per venire a salvarmi, e che no, non si chiamano distrazioni, perché se serve afferrare le cose del mondo per provare a conoscersi meglio, se serve potersi muovere nella vita verticalmente per provare a fidarsi di più di sè, ben vengano i tentativi di guarigione, che è cosi che si chiamano se proprio dobbiamo per forza trovare sempre un nome alle cose. Ben vengano i dubbi, ben venga la ricerca, ben venga il non sapere sempre che fare, ben venga la non immunità alle cose meno belle, se queste accennano ad un’esistenza che vale veramente il suo stesso miracolo.
Mi sveglio spesso tra le 3.30 e le 3.43. Occhi sbarrati al soffitto, che è troppo sbatti alzarsi a farsi una camomilla. Stai, come a carte, senza fare alcuna mossa, finché il sonno non ti prende ancora con sé.
L’ora a quell’ora sembra essere perfettamente a metà. faccio fatica a capire se appartenga più alla notte che la giorno e a me, svegliarmi a quell’ora mi da la sensazione per un attimo di non appartenere a nessuna delle 2 metà, in quella sospensione dove mi sembra di perdere totalmente un’identità , di non appartenere più nemmeno alla mia storia, un ibrido che ancora si può sverginare, che ha il permesso di non vestire nessuna vita, di essere solo quello che è senza alcuna memoria.
Ho sentito che tra le 3.00 e le 4.00 del mattino sia un momento per parlare con l’universo. Anche Dio sembra essere reperibile a quell’ora. Dicono che il canale sia più libero, perché a quell’ora la gente dorme, quindi c’è meno gente che chiede, eppure a quell’ora c’è sempre e solo una cosa che mi viene in mente, quel martedì pomeriggio in cui nonna seduta sulla carrozzina prima di essere messa a letto mi disse “Alè io voglio morire, voglio andare dal nonno e voglio morire nella nostra casa”.
Non mi guardò nemmeno in faccia, sguardo fisso nel vuoto in direzione della tv e poi di nuovo “Alè, io da quel letto oggi non mi alzo più” e per usare Alè con la l’accento sulla e, voleva dire che dovevo prestare attenzione.
Cosi in quel punto della mattina che sembra notte, mi vengono in mente gli ultimi 8 anni della sua vita, il bavaglino intorno al collo, i pantaloni larghi al posto della vestaglia a fiori, dove dentro, c’era un pannolino pregno di una dignità silenziosa che giorno dopo giorno la vedeva spostata come un oggetto senza più un’anima, presa col sollevatore e apparecchiata ad un tavolo in fissa su Forum e la gente estranea a parlare una lingua che lei non capiva.
Si è lasciata morire, lentamente per scelta. Perché lei a 85 anni era lucidissima. Si ricordava date, compleanni, il colore del vestito che aveva messo al matrimonio di suo nipote, sapeva usare perfettamente il cellulare, quello che a detta sua gli scaricava tutti i soldi, cosi ti chiamava iniziando sempre la frase con: “Alessandrù a-nonna scusa che ti disturbo”, di alla mamma di farmi 10 euri di ricarica e poi, chiudeva con “ Scusa che ti ho disturbato” con quel suo sentirsi un peso per gli altri che mi spaccava il petto in due.
Nonna voleva solo ritornare a camminare, voleva ritornare al cimitero a trovare nonno, andare al mercato del giovedì, voleva farsi una doccia e stendere i panni come diceva lei.
Ogni giorno per 8 lunghissimi anni, è rimasta seduta in cucina su quella carrozzina a guardare la vita senza poterla vivere. Aveva fino all’ultimo portato avanti la riabilitazione con il fisioterapista, che sta parola non sapeva pronunciarla, allora come faceva sempre, categorizzava il concetto chiedendo a mia madre e alle zie di prenotarle “quello della ginnastica” cosi da provare anche lei, ad afferrare le cose del mondo per salvarsi.
Provava da seduta con una mano sola, a fare la pizza e biscotti di pasqua, quelli con l’uovo sodo dentro, che uno doveva sempre essere a forma di culla, uno doveva andare alle amiche del pianerottolo, a Tina, alla signora Maria e alla signora Catuzza, la sua migliore amica.
Anche lei ha tentato la guarigione dell’anima riempiendola ad intermittenza con il giro di telefonate ai nipoti, alle figlie, guardando la Durso, guardando il soffitto, e pure guardandosi dentro.
Ma lei lo ha fatto senza potersi muovere e per quanto la forza di volontà di un uomo possa essere inesauribile, non c’è ragione che tenga se le cose oggettivamente non possono più cambiare.
Cosi ha fatto come me, non li ha voluti i passaggi graduali, il prepariamoci a cambiare. Non voleva andare su con un’altra passata di vita, perchè avrebbe voluto dire tradirsi ancora e fare finta di niente, cosi ha messo un punto, ma senza andare più a capo, perché nonna ha scelto di morire da quel martedì pomeriggio, in uno di quelli dove stavo per farmi raccontare tutte le stesse cose del martedì precedente. In uno di quelli che alla fine mi diceva sempre “ grazie che sei venuta”.
Nonna Gaetana, è morta dopo una settimana di agonia, quella vera, quella che ti sospende per davvero tra la vita e la morte. Le abbiamo fatto la veglia giorno e notte, per accompagnarla chissà dove, durante quella fase in cui l’anima uscendo dal corpo passa attraverso il delirio urlando cose assolutamente incomprensibili e una serie di bastardo, che chissà a chi aveva la premura di farglielo sapere prima di andare per sempre dall’altra parte.
Nonna ha rifiutato per sempre quell’umiliazione di farsi prendere da un macchinario con le braccia, farsi cambiare il pannolino dalle figlie, e abitare su una sedia con le ruote, ma sopratutto ha rifiutato per sempre quella che lei diceva non essere vita.
Questa non è vita Alè. Tu vai Alessandù. Fai tutto quello che ti fa stare bene.
A quell’ora, tra le 3 e 4 di una mattina che mi sembra notte, queste ultime parole mi arrivano nel petto. Mi chiedo perché nonna abbia scelto di consegnare proprio a me il peso di quella grande semplice verità.
Che non si può chiamare vita una vita che non ti fa stare bene. Forse nonna le sapeva da sempre le cose che io non le ho mai detto, perché le nonne e le mamme certe cose le sanno e basta. Puoi andare in giro nel mondo a fare corsi seminari, leggere libri e saltare in mezzo ad una folla davanti ad un guru che ti dice seguendo un manuale come riconoscere che stai cannando strada, ma chi meglio di loro sa, quando ti consegnavano le loro tette per farti crescere, che nell’implorazione dei tuoi malumori c’è solo fame di vita.
Nonna se ne è andata lasciandomi la ricetta della pizza, un ciondolo con un cuore e una storia da cui prendere insegnamento. Nonna non la prego e non mi connetto con lei nemmeno in quel canale apparentemente libero dove se implori le tue richieste vengono esaudite.
Nonna la trovo sul fondo del caffè quando mi lascia un cuore, o in una cartolina di René Magritte che avevo comprato al Moma di new york insieme alle cartoline di Pollock e di Monet. Una cartolina che non sapevo più nemmeno di avere, dove sul retro, ho trovato scritta a penna la ricetta della sua famosa pizza, quella che su un kilo di farina ci metteva due cubetti di lievito di birra e quando provavi a dirle “nonna faccio io col levito”, giusto per evitare che 2 pezzi di pizza ci sterminassero tutti sui divani, lei ti diceva “vieni qui a preparare l’impasto che a me non mi hai mai fregato nessuno e di certo non mi freghi tu”.
E’ cosi che mi pare che lei comunichi con me, attraverso quei segnali. Che venendomi a trovare in quei momenti in cui tendo ancora a credere che i miei bisogni non siano degni di merito, mi ricordi di fare tutto quello che mi fa stare bene, che non faccio niente di male se sto solo cercando di riportarmi a casa, e che, in quel profondo silenzio, di quell’ora del giorno che mi pare notte dove tutto è spento, mi sembra di sentire la sua voce, il suo Alè, con l’accento sulla e, che mi rimprovera per dirmi di muovermi, per ricordarmi che con la vita, devo fare attenzione.
Immensamente
Alessandrù.
Clicca sulla copertina del disco per ascoltare tutta la traccia in versione completa.
One comment on “Fai tutto quello che ti fa stare bene.”
Ascoltare a pieno la tua ,un po' la nostra storia... chiudendo gli occhi e rivivere il passato,le storie della nostra amata nonna...le sue chiamate delle 14.00 spaccate dove si sfogava, dove nulla gli andava bene perché le badanti facevano tutto ma non come lei voleva...dove come dici te a fine chiamata ti porgeva sempre scusa se ti ho disturbato...quando mi chiamava per la 18 essima volta nel chiedermi la ricetta delle alette di pollo gratinate...ma era solo una scusa per sentirci...manca come l'aria
Quando se la prendeva con mia mamma perché era la più rompi palle ma allo stesso tempo guai,la tua mamma il suo punto di riferimento,la stolkerizzava❤️🤣 e zia Laura che la offendeva perché andava poco...quante ne diceva su tutti,ma come non capirla...
Potrei scrivere per ore ma mi fermo qui.
Al mio Tommy che lo chiamava Tomasi...e mi chiedeva vedrai a nonna un giorno camminerà...e io ingoiavo un boccone di dolore e con un sorriso gli rispondevo si nonna...un giorno lo farà ma sapevo che quel giorno non sarebbe mai arrivato...
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Quando se la prendeva con mia mamma perché era la più rompi palle ma allo stesso tempo guai,la tua mamma il suo punto di riferimento,la stolkerizzava❤️🤣 e zia Laura che la offendeva perché andava poco...quante ne diceva su tutti,ma come non capirla...
Potrei scrivere per ore ma mi fermo qui.
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Aspetto il tuo libro...amo ascoltarti